mercoledì 1 febbraio 2012

Filosofia morale - Neuroetica

Neuroetica

Piccola premessa: molti argomenti sono simili e ripetuti tra questo libro e “Siamo davvero Liberi” ; avendo riassunto prima l’altro non riassumerò qui gli stessi argomenti e concetti. Di conseguenza solo integrando i due libri e leggendoli in questo ordine prendono senso gli appunti.

Introduzione, di Andrea Lavazza e Giuseppe Sartori

Per PSICOLOGIA INGENUA intendiamo quelle intuizioni fortissime e incancellabili di cui ci serviamo per muoverci nell’ambiente sociale, assai utili ma forse non corrispondenti a una più precisa descrizione del mondo. Quello che la ricerca in questi anni ci ha consegnato è una sorta di NEUROESSENZIALISMO, all’interno del quale non conta tanto ciò che possiamo fare sulla base di progressi tecnici, ma ciò che veniamo a sapere circa il nostro stesso funzionamento. Il FATALISMO è la concezione che considera le vicende del mondo governate da un destino predeterminato, già stabilito. È spesso usato nel senso di determinismo.

Cap.1. Che cosa è la Neuroetica, di Andrea Lavazza

In questo capitolo si sostiene che oggetto della neuroetica non sono tanto le applicazioni delle neuroscienze, quanto quale idea di uomo discenda dalle nuove conoscenze rese disponibili dalla ricerca. L’esempio principale fornito da Lavazza è legato all’autonomia personale, tradizionalmente un concetto filosofico prescrittivo, che però può trovare una nuova declinazione, almeno in alcuni ambiti specifici, grazie a recenti acquisizioni sul funzionamento del sistema dopaminergico. Se si considera qual è la reale base di alcuni comportamenti, come l’uso compulsivo di droghe, le stesse assunzioni filosofiche sull’autonomia da attribuire universalmente agli individui possono essere rimesse in discussione. Già gli egizi praticavano trapanazioni craniche ma in realtà è solamente da due decenni che la riflessione sulle implicazioni etiche, legali e sociali delle neuroscienze ha cominciato a dispiegarsi a partire dagli U.S.A. e dal mondo anglosassone. La crescente comprensione del funzionamento del sistema nervoso centrale e la possibilità di intervenire sul cervello hanno portato alla prima definizione di NEUROETICA:” l’esame di che cosa è giusto e di che cosa sbagliato, di che cosa è bene e che cosa è male nel trattamento, nel perfezionamento, nelle intrusioni indesiderate e nelle preoccupanti manipolazioni del cervello umano.” La filosofa Adina Roskies ha proposto una partizione che è andata affermandosi e che pone da un lato l’etica delle neuroscienze e dall’altro le neuroscienze dell’etica. In sintesi, l’ETICA DELLE NEUROSCIENZE riguarda la riflessione sulle applicazioni controverse delle neuroscienze stesse, mentre le NEUROSCIENZE DELL’ETICA hanno al loro centro il ragionamento morale a partire dalle basi materiali. Ad ogni modo il terreno specifico della neuroetica dovrebbe attendere alla riflessione circa ciò che apprendiamo su noi stessi e il nostro funzionamento, grazie principalmente ma non solo, alle neuroscienze. In altre parole è la naturalizzazione forte dell’indagine sull’essere umano a rendere pertinente una meta disciplina che si occupi dell’ambito multidisciplinare descritto. L’oggetto di studio non è quindi ciò che possiamo fare ma ciò che sappiamo o che crediamo attendibilmente di sapere. L’AUTONOMIA INDIVIDUALE è l’idea che si riferisce alla capacità di essere la propria persona, di vivere la propria vita secondo ragioni e motivi che sono considerati come propri e non il prodotto di forze esterne che manipolano o distorcono. Autonomo è chi può guidarsi da solo, governare il proprio Sé libero da interferenze di altri e da limitazioni personali che impediscono scelte significative; chi può agire secondo un proprio piano scelto in assenza di costrizioni. Essere autonomi è essere sé stessi, essere diretti da considerazioni, desideri, condizioni e caratteristiche che fanno parte di ciò che in qualche modo può essere considerato il proprio Sé autentico, e in quanto tale, si propone come un valore irrefutabile. Nell’attuale temperie culturale si può affermare che per gli adulti sopra una certa soglia valga la presunzione di autonomia e l’obbligo del rispetto di essa. Dunque anche se si interviene contro la volontà di un individuo per il suo bene ( non importa se bene presunto o oggettivo, il liberalismo dell’autonomia dà la preminenza al “giusto” come deontologia di valori assoluti, l’autonomia in questo caso), si mostra meno rispetto per quell’individuo come persona che non se gli si permette di compiere ciò che pare un errore agli osservatori. In questo senso, il rispetto dell’autonomia è richiesto indipendentemente dall’effettiva autonomia mostrata dalla persona in quel momento. Nel nostro sforzo di rispettare quanto più possibile un paziente con demenza, dovremo dare priorità alle preferenze e agli atteggiamenti che manifestava prima di ammalarsi o seguire gli interessi che la persona esprime correntemente? (ad. il esempio caso dell’Alzheimer). L’idea di Dworkin è che per sviluppare quelli che egli chiama CRITICAL INTERESTS ( ovvero scopi generali dell’individuo anche esterni all’autorealizzazione, come il benessere dei figli, il risultato del proprio lavoro a beneficio della comunità ), contrapposti agli EXPERIENTIAL INTERESTS ( legati alla soddisfazione personale momentanea), serva una capacità di vedere la propria vita in un modo unitario, con il passato legato al presente e una proiezione nel futuro, capacità che gli alzheimeriani perdono. Nel 2007 Levy formula una teoria dell’autonomia basata sia sulle effettive prestazioni del nostro cervello , sia sull’idea di mente allargata, ovvero l’ipotesi che il complesso mente-cervello comprenda anche strumenti esterni ed elementi ambientali, cooptati dall’individuo per svolgere alcuni compiti. Due gli elementi chiave in questa prospettiva, ovvero l’autocontrollo e la EGO DEPLETION ( letteralmente l’esaurimento dell’ego). L’AUTOCONTROLLO ci evita di essere alla mercé dei desideri del momento, i quali ci impedirebbero di costruire un piano di vita sensato e ordinato verso una meta. Recentemente è stata avanzata l’ipotesi che l’autocontrollo dipenda in modo cruciale dalla disponibilità di glucosio nel sangue e che questo diminuisca a lungo termine. Nel caso specifico della tossicodipendenza la volontà dell’individuo viene totalmente annullata con l’avvio di un meccanismo di dipendenza non dovuto tanto alla sostanza, quanto piuttosto alle scariche di dopamina che avvertono il sistema che è sopraggiunto uno stimolo migliore di quanto preventivato; in questo modo i valori degli stimoli che anticipano la cocaina continuano a crescere in una spirale di “apprendimento continuo”. In questo senso le scariche di dopamina, in quanto segnali di errore nella predizione della ricompensa, indicano dunque la valutazione fatta dal cervello. L’assunzione di eroina e cocaina è quindi una scelta iniziale che si tramuta in “corto circuito cerebrale.” Infine sono stati analizzati i comportamenti specifici di individui che tendono a distrarsi. La tendenza alla distrazione, tipica degli adolescenti, è legata alla dinamica in evoluzione di alcune strutture corticali che sono sovrabbondanti di cellule nervose, rendendo così difficile concentrarsi a lungo su un compito singolo.

Cap.3. Libero arbitrio e neuroscienze, di Mario De Caro

Mario De Caro affronta qui il dibattito sul libero arbitrio, nel quale crescono le evidenze sperimentali a favore del determinismo o, perlomeno, del fatto che la coscienza non ha un ruolo attivo nella presa di decisione, bensì sarebbe soltanto spettatrice postuma di corsi d’azione avviati a livello cerebrale. Davvero non siamo liberi, come ci dicono Libet e altri studiosi che hanno esteso le sue ricerche, come Haynes? Non necessariamente, la versione compatibilista ad esempio. De Caro mostra che la soluzione del libero arbitrio non potrà essere offerta soltanto dalle neuroscienze. Ciò che emerge rispetto al problema della libertà è che il piano concettuale e quello empirico si intrecciano saldamente: assolutizzando un aspetto rispetto all’altro non si andrà lontani. Buona parte della filosofia moderna ha affrontato la discussione sul libero arbitrio con un metodo di indagine classico: esemplare è il caso di Kant, basti pensare alla terza antinomia della Critica della ragion pura, dove l’idea di una “causalità” secondo le leggi della natura, incompatibile con la libertà umana, viene opposta a quella di una “causalità mediante libertà”, concepita come vero e proprio fondamento dell’imputabilità dell’azione. De caro si concentra soprattutto su alcune critiche mosse verso l’esperimento di Libet, dal quale gli sperimentatori trassero l’idea che la nostra unica libertà è quella di veto.

1) Innanzi tutto ci sono casi in cui compiamo azioni libere senza essere completamente coscienti del fatto che le eseguiamo, né delle modalità o dei tempi in cui lo facciamo.

2) Inoltre, cosa mai potrebbe differenziare una volizione negativa da una positiva al punto che una sia degna del concetto di libero arbitrio e una no?

3) Ancora, in letteratura non v’e’ accordo sul quale sia la natura del potenziale di prontezza né sul ruolo che esso svolge nei processi causali che portano al compimento delle azioni intenzionali.

4) L’accettazione conscia del compito potrebbe essere causa sia dell’incremento del potenziale di prontezza, sia in modo più mediato, della decisione di flettere il dito.

Per quanto riguarda l’esperimento di Libet modificano da Soon, Haynes e colleghi, anche in questo caso è possibile rivolgere delle critiche:

1) Pare molto dubbio che la decisione di premere uno dei due pulsanti, la consapevolezza di tale decisione e la percezione di quale sia la specifica immagine che appare sullo schermo del computer, siano veramente simultanee come presuppongono gli autori dell’articolo.

2) La presunta “decisione”cui l’articolo fa riferimento, premere il pulsante dx o quello sx, è del tutto irrilevante per i soggetti sperimentali: essi non hanno preferenze in un senso o nell’altro che possano essere poste in gerarchia per operare la scelta; dunque non si tratta di una scelta genuina.

3) L’indice di accuratezza dell’esperimento si aggira intorno al 60%, resterebbe quindi un 40 % di margine per chi, come molti libertari , ritiene che la libertà umana si fondi su eventi indeterministici: in questo senso basterà interpretare quel 40 % non come un segnale della nostra ignoranza, ma come una manifestazione oggettiva dell’indeterminismo neurofisiologico.

Cap.6. Cervello, diritto e giustizia, di Giuseppe Sartori, Andrea Lavazza e Luca Sammicheli

In questo capitolo gli autori si concentrano sulle importanti ricadute che la nuova comprensione del funzionamento cerebrale può produrre, e già produce, sul diritto e l’amministrazione della giustizia. Si và dalla possibilità di utilizzare nuove tecniche di memory-detection, ovvero macchine in grado di discriminare in modo obiettivo e con buona approssimazione ricordi veri e ricordi falsi di soggetti coinvolti in casi giudiziari, allo spostamento dei confini dell’incapacità come concetto giuridico, ad esempio per i malati in stato vegetativo persistente, una volta che sia accertata la presenza di un residuo di coscienza e vengano rese disponibili tecniche capaci di consentire a questi pazienti qualche forma di comunicazione. Rilevanti sono anche le ipotesi sulla “gradazione” della quantità di libero arbitrio di cui ciascuno sarebbe dotato, suscettibili di permettere una proporzionale attribuzione di responsabilità agli imputati di certi crimini. Infine, Sartori, Lavazza e Sammicheli discutono quanto sostenuto da alcuni neuro scienziati, secondo i quali gli individui sono “macchine” neuronali che non ha più senso considerare colpevoli dei propri misfatti e punibili per essi. Il diritto retributivo andrebbe allora sostituito con misure volte a garantire la sicurezza dei cittadini più che a sanzionare i rei. Il diritto occidentale contemporaneo mantiene ancora implicitamente una concezione “cartesiana” dell’individuo. Sotto tale semplificatoria etichetta, si colloca una comprensione della persona come costituita da un dualismo di mente e corpo, in cui il primo elemento, variamente definito, gode di una rilevante autonomia, se non di una totale indipendenza dal secondo. La concezione cartesiana deriva dalla necessità di ancorarsi a un “modello di agire umano” legato al principio della libertà e della “signoria dell’azione”. In campo penale il concetto di COLPEVOLEZZA presuppone una libertà di agire dell’uomo, una libertà del volere, una libertà come capacità dell’uomo, seppure entro certi limiti, di autodeterminarsi. Sul tema della colpevolezza giuridica si assiste a uno scontro tra quella che De Caro chiama l’ INTUIZIONE PREFILOSOFICA DÌ LIBERTA’ e la concezione scientifica del mondo naturale legata all’ineluttabilità delle leggi del determinismo causale. In parole povere condividiamo una concezione dell’uomo come agente libero basata su una intuizione di senso comune non razionalmente fondata ma unanimemente condivisa). Il primo ad occuparsi del problema della menzogna fu Vittorio Benussi che mise a punto la metodologia di lie-detection, fondata sulla rilevazione del profilo fisiologico della respirazione. Le recenti tecnologie di brain-imaging permettono inoltre di visualizzare l’attività cerebrale nel suo compiersi e di studiarla non invasivamente. Si è inoltre studiata una metodologia efficace per identificare memorie autobiografiche, ovvero l’Autobiographical IAT : essa si basa su un fenomeno molto forte relativo all’organizzazione del sistema nervoso, l’effetto compatibilità. Lo IAT è uno strumento di misura indiretta che in base alla latenza delle risposte, stabilisce la forza dell’associazione tra concetti. Si discute inoltre della capacità di agire e degli stati vegetativi citando il caso di Eluana Englaro, si discute l’applicazione delle neuroscienze nell’ambito criminale, nel quale è ormai noto che è fondamentale il ruolo del lobo frontale nella complessa eziologia del comportamento violento. Per quanto riguarda la capacità di intendere e di volere, come già citato in precedenza si discute la quantificabilità del libero arbitrio. Come si può essere considerati padroni di azioni che il nostro cervello ha già deciso prima che noi ne siamo consapevoli? ( De Caro sottolinea come sia possibile obiettare tale argomento tramite le critiche degli esperimenti di Libet e Haynes citate in precedenza).

Cap.7. Evoluzione, cognizione e cultura, di Massimo Marraffa

In questo capitolo Marraffa si dedica al tema delle credenze. Quelle della vita quotidiana, e anche quelle più riflessive, sono condizionate dall’architettura e dal funzionamento cerebrali, frutto di processi evolutivi, in alcuni casi legate in prima istanza ad altre funzioni. In base a tali fondamenti neurocognitivi della cultura, emerge come alcuni tipi di credenze si diffondano più facilmente e altri più difficilmente si possano correggere, ad esempio le credenze religiose. La cultura influenza le nostre credenze e anche le strategie di elaborazione dell’informazione che impieghiamo per conoscere il mondo. Marraffa argomenta a favore di una visione pienamente naturalistica della cultura che, darwinianamente, nega l’esistenza di una differenza categoriale, o ontologica, fra mente umana e mente animale. Per alcuni decenni, tra gli anni 20 e 50 del Novecento, la psicologia è stata dominata da un approccio empiristico allo sviluppo cognitivo. L’essere umano nascerebbe dunque privo di ogni conoscenza, dotato unicamente di capacità sensoriali e di una capacità di apprendimento generale, che si applica a ogni dominio della realtà. Ogni conoscenza va appresa nel corso della vita, attraverso l’esperienza diretta o per trasmissione culturale. Opposto all’approccio empiristico vi è la struttura modularistica di Chomsky, costituita da un insieme di sottosistemi distinti che eseguono funzioni molto specifiche indipendentemente gli uni dagli altri. Si tratta di una specie di “Kantismo” biologico e plurale in quanto le strutture a priori in questione sono imputate in ultima analisi al cervello e anzi a ragioni specializzate in esso; plurale in quanto non c’è un unico apparato a priori, ma tanti quante sono le specifiche competenze identificate. Il RAPPRESENTAZIONALISMO è il primo elemento fondante di quella che a partire dalla fine degli anni 60 è nota come PSICOLOGIA COGNITIVISTA, la quale spiega il comportamento intelligente assumendo che la mente sia un sistema rappresentazionale, ossia sostenendo che la funzione principale degli stati mentali è quella di rappresentare proprietà, oggetti o eventi del mondo. Fra le due visioni dell’architettura cognitiva umana , ovvero l’empiristica e la ultramodularistica è probabile che verità stia nel mezzo e che la mente umana possa contare su un piccolo numero di sistemi di conoscenze innati e specifici per dominio. Nel capitolo si parla inoltre della cultura nella prospettiva cognitivo-evoluzionista. Boyer ha utilizzato una teoria epidemiologica della cultura nello studio delle credenze religiose. L’antropologo sostiene che le rappresentazioni mentali dei concetti religiosi condividono 3 caratteristiche generali:

1) I concetti religiosi attivano 5 categorie ontologiche: persona, animale, pianta, manufatto, oggetto naturale.

2) I concetti religiosi specificano sempre informazioni che violano le aspettative associate alla categoria ontologica pertinente ( esempio dei fang del Camerun che credono che la loro foresta sia popolata da spiriti invisibili con proprietà che violano la fisica intuitiva, come il poter attraversare i muri etc..).

3) I concetti religiosi attivano anche, fra le aspettative associate alla categoria ontologica pertinente, quelle che non sono violate ( per esempio gli spiriti sopra citati sono si invisibili ma desiderano che certi rituali vengano eseguiti e in tal modo hanno proprietà inerenti al mondo fisico, e quindi che non violano le aspettative). In conclusione possiamo dire che la variazione culturale è spiegabile solo se situata all’interno di uno spazio vincolato da ontologie intuitive evolute. La cognizione è dunque il prodotto dell’evoluzione, ma essa non si riduce a un insieme di sistemi specifici per dominio e canalizzati. L’interazione fra scienze neuro cognitive e scienze sociali può dunque avvenire sia secondo una prospettiva cognitivo-evoluzionistica sulla cultura sia secondo una prospettiva culturale sulla cognizione. E l’integrazione fra queste due prospettive è attualmente in cima alle agende della psicologia evoluzionistica e della psicologia culturale.

DEFINIZIONI:

Compatibilismo: teoria filosofica secondo cui il libero arbitrio dell’uomo è compatibile con il determinismo e le sue accezioni, e in alcune versioni addirittura lo richiede.

Il Supercompatibilismo richiede, al contrario del libertarismo causale, che le nostre azioni, per definirsi libere, debbano essere perfettamente determinate in quanto se non fossero tali sarebbero casuali e quindi non libere.

Incompatibilismo: è la teoria filosofica secondo cui il determinismo, comunque inteso, non può coesistere con il libero arbitrio.

L’Incompatibilismo si divide a sua volta in libertarismo e illusionismo.

L’Illusionismo è la concezione filosofica secondo cui la libertà è una illusione.

Il libertarismo è la concezione filosofica secondo cui vi è libertà e non determinismo ( sostenitori di quel 40% dell’esperimento di Libet).

Il libertarismo causale richiede che nel mondo naturale esistano fattori indeterministici rilevanti, perché essi sono condizione necessaria della possibilità e dell’esercizio del libero arbitrio.

Misterialismo: è la concezione filosofica secondo cui il libero arbitrio è per noi irrinunciabile, ma allo stesso tempo inconciliabile con la visione scientifica del mondo, rappresenta dunque per noi un mistero insolubile.

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