giovedì 2 febbraio 2012

Religione cattolica e Stato nazionale


RELIGIONE CATTOLICA E STATO NAZIONALE

Padre Taparelli d’Azeglio

Padre gesuita, fratello di Massimo d’Azeglio. Scrisse Esame critico degli ordini rappresentativi nella società moderna nel 1854. I sistemi rappresentativi utilizzati in tutta l’Europa continentale, più che essere un cambiamento e una modernizzazione delle forme di governo, era un attentato al cattolicesimo. In questi ordinamenti l’individuo è indipendente, il popolo sovrano, la legge fatta da una pluralità. Nell’opera si ritrova la contrapposizione tra idea di patria in senso cattolico e idea di Stato nazionale moderno, la prima inserita in un ordine naturale di comunità, il secondo in un ordine artificiale di poteri. La libertà di coscienza, a suo avviso, distruggeva l’unità della società. La società è fatta di diversi livelli, formata da individui con diritti e doveri che devono essere riconosciuti e valorizzati. Ogni livello deve cooperare razionalmente e non fomentare competizioni e conflitti, animati da passioni che sono sempre nocive.

Scrisse il Saggio teoretico di diritto naturale appoggiato sul fatto nel 1840-1843. Con esso va in conflitto esplicito con Gioberti, che aveva promosso una campagna contro gli autori gesuiti, e anche con il fratello Massimo nelle sue Speranze d’Italia, sulla questione di nazionalità. L’opinione del fratello era che il primo tra i diritti era il perseguimento dell’indipendenza, ma in questa affermazione Padre Taparelli vedeva la confusione tra indipendenza dell’Italia dallo straniero e l’indipendenza dei sudditi dai principi. Il rapporto tra nazionalità e sovranità era la chiave dell’opuscolo Della nazionalità, del 1847.
Taparelli aveva idee tradizionaliste e per lui la nazione era il prodotto della naturale tendenza umana a formare e riconoscersi in comunità sempre più ampie, imperniate sulla famiglia. Posta la comunità di origine, la lingua comune come elementi essenziali della nazione, le altre forme come il territorio e le istituzioni politiche erano variabili, e quindi non necessarie per la nazione. Bisognava tener distinta l’idea di nazione da quella di unità sociale, perché se il diritto di sovranità è legittimo esso prevale sul diritto di indipendenza, che diventa non necessaria. Essa può essere un bene, ma a patto che non vada in conflitto con i principi generali di giustizia e detrimento dei diritti dei popoli confinanti, e rimaneva comunque affidato ai reggenti dei popoli, detentori della sovranità.

Alla fine degli anni ’40 Gioberti andò in forte contrasto con le sue idee. Mentre Gioberti poneva religione e nazionalità in una relazione dialettica, Taparelli la raffigurava come parte del tutto, in un modello di repubblica cristiana. Escludeva che il principio di nazionalità potesse essere portatore di nuovo diritto o legittimità politica, perché lì si poteva scorgere uno spirito rivoluzionario proprio dell’epoca moderna. Per il padre gesuita poteva esistere la nazione con la sua rilevanza storica, ma la subordinava a un ordine di diritti e fini, al principio di unità religiosa e al primato normativo della Chiesa. Le forme politiche potevano essere legittimate – ma non assolutisticamente – dalla Chiesa stessa.

Il Saggio teoretico tentò di collocare l’idea di nazione al di fuori della struttura liberale e divenne un punto di riferimento, dopo il ’48, dalla parte della cristianità che affondava le sue radici nella condanna delle idee liberali.

Ultramontanesimo

Corrente che si crea negli anni della Restaurazione. È un romanesimo di ritorno, che sanciva il primato e la libertà di San Pietro, come della supremazia del potere temporale e spirituale, oltre che la garanzia della libertà della Chiesa da vincoli giudiziari degli Stati, soprattutto dopo la Rivoluzione francese.Tra l’idea di papato e l’idea di primato nazionale si trasferiva in quest’ultimo l’immagine biblica del popolo eletto e della nazione santa.
Nel guelfismo italiano convergevano tre temi di natura:
1)     teologico-politica: sulla sfera concettuale della sovranità legittima;
2)     etico-civile (sul ruolo civile del cattolicesimo e del rapporto tra religione e incivilimento;
3)     storico-nazionale: sul ruolo del Papato nella storia della nazione italiana.

Joseph De Maistre

Scrisse nel 1819 il Du Pape. Esso indagava la compenetrazione tra sfera religiosa e sfera politico-sociale. La sovranità, secondo De Maistre, era ad appannaggio del Pontefice, in quanto detentore del potere spirituale e temporale, dunque garante dei principi di libertà della nazione, anche dall’invasore straniero, in particolare quello germanico. Nel rapporto tra sovranità e nazione sanciva che è il sovrano stesso a dover dare alla nazione un’esistenza sociale, e non il contrario (dunque, non ammetteva la sovranità popolare).

Alessandro Manzoni

Scrisse nel 1819 le Osservazioni sulla morale cattolica. Manzoni si distanzia dalle idee precedentemente esposte, separando la religione dalla politica. Offre una rappresentazione della morale cattolica al di fuori del tempo, attraverso i Vangeli e la Rivelazione, oltre che con l’educazione morale della Chiesa. Tutto ciò permetteva a Manzoni di distanziare i due contesti, perché la religione prescrive all’uomo di essere giusto in qualsiasi sistema, e solo attraverso la mediazione delle coscienze la religione può cambiare delle istituzioni, qualora esse risultassero dannose.

Scrisse nel 1822 il Discorso sui Longobardi. Affrontò qui i temi della nazionalità, in netta contrapposizione con quelli di sovranità affrontati da De Maistre. Nella visione evangelica della questione, Manzoni afferma che l’identità nazionale persiste al di là dei detentori della sovranità e del potere. Per questo porta l’esempio del popolo latino, oppresso da quello longobardo, ma detentore della sua identità nazionale che non si unì mai con quella dell’altro. Era il presupposto storico che consentiva all’autore di dimostrare un dualismo nella storia italiana. I pontefici romani non sono raffigurati da Manzoni come difensori della libertà politica della nazione, ma come oggetti di venerazione e di terrore da parte dei loro nemici. Non sono detentori di sovranità e il Papa non viene visto come detentore del potere temporale, ma sostenuto da una Chiesa che è esclusivamente un’autorità religiosa. Il Papa dava speranza, ma non aveva funzioni politiche, perché la religione dava un’identità nazionale al popolo che andava al di là delle strutture politiche.

Negli anni ’20 il clima ecclesiastico inizia a mutare, e con la libertà di stampa e di associazionismo si iniziano a creare nuove idee legate anche al concetto di Chiesa, nazione e sovranità.

Correnti guelfo-legittimiste: mettevano in relazione il potere dei sovrani con l’autorità religiosa, rischiando di minacciare gli equilibri raggiunti tra Stati e Chiesa nel periodo della Restaurazione.

Correnti guelfo-nazionali: interveniva il terzo fattore della nazione, che però aveva una sua indipendenza da quello spirituale e temporale, come nel discorso manzoniano.

Giocchino Ventura

Scrisse Dello spirito della rivoluzione e dei modi di farla cessare nel 1833. Teorizzava un’alleanza tra popolo e papato, anticipando gli argomenti di Gioberti.

Antonio Rosmini

Scrisse le Delle cinque piaghe della Santa Chiesa nel 1832, messa all’Indice nel ’49, ripubblicata nel ‘66. Definiva una serie di prerogative e diritti del popolo cristiano in ambito ecclesiastico accompagnando la formulazione di una teoria costituzionale sul piano politico, che infrangeva la concezione sacrale di sovranità demaistriana.
Le Cinque piaghe sono una delle espressioni più singolari del riformismo cattolico ottocentesco. L’autore fa corrispondere le piaghe del crocefisso sulle mani di Cristo, che permisero il suo riconoscimento una volta risorto, con le piaghe che si erano aperte nella Chiesa nel corso della sua storia. In particolare esse erano cinque:
1)     divisione del popolo dal clero nel pubblico culto
2)     divisione dei vescovi
3)     insufficiente educazione del clero
4)     nomina dei vescovi abbandonata al potere laicale degli Stati
5)     servitù dei beni ecclesiastici e il loro uso a scopi profani.
Ad ogni piaga c’erano possibili rimedi. Rosmini basava tutto sulla raffigurazione paolina della Chiesa, quale corpo mistico di Cristo, percepito nella corporeità ferita, le cui piaghe erano il segno più evidente del suo cristomorfismo. Rosmini non faceva discendere la storia della Chiesa solo dal divino – che non confutava – ma la rapportava all’evoluzione di qualsiasi società civile, con le sue regole di base, costituite di individui. La differenza tra la storia della Chiesa e la storia delle società umane non è nell’esenzione della prima da fenomeni di alterazione per la sua natura divina, ma nel fatto che in essa ci siano fattori di crisi e di riforma interagenti e correlati. Era la duplice visione di una storia della Chiesa immersa nel bene e nel male che fa parte della storia umana, ma anche delle vie nascoste e paradossali della Provvidenza.
Rosmini rendeva una connessione essenziale tra la cura delle piaghe della Chiesa e la coscienza che esse si erano aperte in una determinata epoca, di cui erano la risultante. La storicità delle piaghe implicava il risanamento delle stesse, ma per essere efficace si doveva essere consapevoli delle ragioni storiche che le avevano generate.
Il modello di riferimento medievale doveva essere accantonato. Dalla fine dell’Impero romano la divina provvidenza aveva guidato la Chiesa all’obiettivo di far entrare la religione di Cristo nella società o di creare una nuova società cristiana. Quando questo risultato venne conseguito, non ci fu una conversione dell’Impero, ma la sua distruzione. Ciò aveva avviato un cammino di introduzione della dottrina cristiana all’interno della società. La realizzazione di un simile disegno aveva richiesto, come condizione primaria, quella che la Chiesa aderisse alla società in cui agiva. Dunque, un processo di secolarizzazione della vita e delle istituzioni ecclesiastiche, chiamate a intrecciare rapporti sempre più stretti con l’epoca in questione, acquisendone spirito e forme, spesso assoggettandosi a poteri e a interessi secolari. La secolarizzazione veniva vista come l’unico modo per edificare la cristianità. Le piaghe erano il segno del prezzo pagato dalla Chiesa del cammino compiuto nella società umana per la sua conversione, collocato tra due epoche. Quella dei primi sei secoli di storia cristiana, quando a dover essere convertite erano singole persone, e l’epoca che Rosmini credeva appena dischiusa, in cui è finalmente possibile la cura delle piaghe. La Chiesa doveva subire una purificazione, riconquistando lo spirito e l’identità originaria, ma passati attraverso il filtro della secolarizzazione. Rosmini faceva riferimento anche alla positività della diffusione delle teorie evangeliche all’interno della società, come nella mente dei sovrani regnanti. Ma ora questa missione era consumata e bisognava prepararsi ad una nuova epoca. Si erano susseguite, nella storia della Chiesa, fasi di evoluzione e fasi di stasi, in cui si rimediava ai danni. Ora, in particolare, si faceva riferimento a due problemi, ossia la declinante formazione del clero e del popolo cristiano, sempre più immersi nel razionalismo, e la crescente subordinazione degli episcopati nazionali al potere dei principi.
Rosmini vedeva nell’epoca post-tridentina un periodo di transizione. L’epoca iniziata con la fine dell’Impero romano si era conclusa perché aveva dato tutto quello che poteva, e la fase medievale aveva portato alla disgregazione e alla presa di coscienza di una vulnerabilità della Chiesa. Ora, l’epoca post-rivoluzione francese era una fase di cambiamento, proprio come il crollo dell’Impero romano, e la novità delle Cinque piaghe non è solo nell’individuazione delle stesse, ma soprattutto nel suo tentativo di risoluzione, a partire da un’analisi più approfondita, concernente anche il periodo storico di riferimento e la società umana di quel tempo.

Nel 1848 avvenne una definitiva saldatura tra movimento nazionale, principi costituzionale e disgregazione del principio di legittimità su cui si fondavano gli stati italiani. Secondo Rosmini, in quel panorama, non era più il caso di parlare di nazionalità, perché il processo verso la sua formazione era inarrestabile per via del consenso unanime che avrebbe portato a ordinamenti costituzionali e rappresentativi. Bisognava arrivarci in un modo che non andasse, però, in conflitto con la Chiesa e suggerì un costituzionalismo che si ispirasse a sistemi di rappresentanza e istituti diversi da quelli francesi. Una confederazione di stati italiani con identici ordinamenti costituzionali e uniformi nei governi, rappresentati a Roma da una dieta nazionale e da un concistoro papale con funzioni di alta corte di giustizia. Svincolare, dunque, il Papa dai suoi poteri politici per potergli assegnare quelli di guida spirituale, protettore della nazione e suprema istanza giurisdizionale, ma non politica. Idee molto simili, tra l’altro, a quelle di Gioberti.

Gioberti

Scrisse nel 1843 il Primato morale e civile degli italiani, che ebbe in 5 anni 11 edizioni e ristampe, e vendette 80.000 copie. Conciliò voci diverse e diede voce alle attese che si erano profilate nel decennio precedente. Penetrò negli ambienti ecclesiastici diffondendo la concezione dell’idea di nazionalità.
Il Primato era un Du Pape rovesciato, perché applicava alla nazione italiana le prerogative di sovranità date al Papa da De Maistre. Gioberti si incentrava, invece, sul rapporto tra religione, civiltà e nazionalità.
Parte del suo successo è stata l’applicazione di figure bibliche nella vicenda storica e civile del popolo italiano (popolo eletto, nazione sacerdotale). Il Risorgimento, per Gioberti, significava “redenzione”, dovuta al fatto che l’Italia fosse una nazione sacerdotale, e dunque “resurrezione”.
Gioberti dava al Pontefice il ruolo di capo civile d’Italia, simbolo di unità religiosa, morale e civile della nazione, ben distinta dalle sue funzioni temporali. Dalla religione discendono le civiltà. All’emancipazione del potere laico proprio della modernità, e alla crescita di una coscienza nazionale autonoma, doveva corrispondere una riforma intellettuale e morale del cattolicesimo, per potersi reinserire con forza nello spirito del tempo.
Nel Primato convivevano la massima tesi guelfa per cui il cattolicesimo romano e papale erano un principio fondamentale per l’identificazione della nazionalità, e la sua trascrizione in una linea di riformismo religioso, culturale e politico.
Se De Maistre legava il Papa alla sovranità, Gioberti legava il Papa alla nazione. Immaginava una confederazione di stati presieduta dal Papa, che doveva fungere da moderatore, e quindi delineava un ordinamento di monarchie consultive che cooperano tra di loro, sotto la pacificazione pontificia, di stampo settecentesco più che orientato verso la modernità.

Con Prolegomeni del Primato del 1845 e Gesuita moderno del 1846-46, Gioberti porta avanti una campagna di contrapposizione ideologica con i gesuiti, in quanto categoria morale contrapposta al cattolicismo. Gioberti assaliva i principi essenziali del cattolicismo romano e papale, sposando la causa di una riforma religiosa che lo avvicinava a Machiavelli o a Sismondi: la morale cattolica come motivo della decadenza italiana.
Gioberti va in discussione con Padre Taparelli, amplificando le sue posizioni in modo più esplicito. La sua idea di nazione è quella di una persona collettiva di fronte al diritto pubblico, un dato permanente formato sul territorio, la razza, la lingua, bene sociale dei popoli e connotato dell’indipendenza come sua condizione di esistenza, producente una propria forma politica. I cittadini devono promuovere l’indipendenza con i mezzi privati e pubblici che hanno a disposizione e la religione, non facendo sviluppare il suo naturale spirito nazionale, l’ha resa imperfetta. Con un incontro tra religione e idea nazionale si può trasformare anche la storia della civiltà integrandola così nella storia della salvezza.

Nel 1851 Gioberti dà alle stampe il suo nuovo libro Del Rinnovamento civile d’Italia in cui radicalizza le sue posizioni affermando che il neoguelfismo è ormai superato, identificabile con il periodo del Risorgimento, e che ora c’è una nuova fase di rinnovamento civile. La Roma ecclesiastica ripugna il principio nazionale e civile, dunque non può essere il motore della realizzazione del rinnovamento italiano.

Se prima del ’48 ci furono autori come Cesare Balbo che teorizzavano, in Speranze d’Italia, una saldatura tra la forza spirituale di Roma e la forza politico-militare del Piemonte sabaudo, dopo il ’48 era aperto tra le due un conflitto, per riunirsi nello Stato liberale. Per Gioberti l’egemonia del movimento nazionale del Piemonte era la diretta conseguenza del fatto che lo Stato sabaudo, unica entità politica della penisola, avesse convalidato una conversione tra principio di legittimità dinastico-assolutistico a un principio nazionale-rappresentativo. Questo poté avvenire perché lo Stato sabudo resistette alle pressioni della Santa sede e alle resistenze di Vittorio Emanuele II, complice l’onda costituzionalista e uomini di governo non condizionati da conflitti di natura religiosa. L’egemonia del movimento nazionale da parte di uno Stato costituzionale a regime parlamentare veniva visto dalla Santa sede come una minaccia rivoluzionaria, altamente aggressiva.
Lo Stato sabaudo ebbe il suo successo come classe politica nazionale grazie al fatto di esser riuscito ad inglobale un numero consistente di uomini che professavano la religione cattolica, molti dei quali passati attraverso il neoguelfismo, ma anche per raccogliere consensi da parte di un clero influente sull’aristocrazia e sulla borghesia liberale, oltre che sulle classi popolari urbane. Una classe eterogenea accomunata dall’idea di una nazione interconnessa da principi di costituzionalismo.
Nel Rinnovamento Gioberti si esprime sul separatismo tra Stato e Chiesa, dicendo che con esso non si voleva ridurre la religione a semplice affare privato, ma a una divisione di giurisdizioni.

Pio IX

Pio IX aveva compiuto dei passi a favore dell’unità nazionale, ma che andavano in aperto conflitto con il suo ruolo di sovrano temporale. Quando venne instaurata, nel 1848, la Repubblica Romana, egli non nascose sentimenti di avversione per i sistemi costituzionali, pur cedendo alle pressioni dei fautori della costituzione. Ne uscì un ordinamento ibrido, a metà tra la trasposizione dei principi religiosi e quelli liberali, anche se i suoi esponenti furono illustri (Minghetti, Mamiani, Farini, Pasolini, Pantaleoni, Pellegrino Rossi). Rifugiatosi a Gaeta, Pio IX si mostrò estremamente riluttante a tutte le libertà costituzionali, di stampa o di associazione che vennero concesse, ritenendole cattive, e solidarizzò con gli altri sovrani che si erano distaccati dal movimento nazionale.
Nel momento in cui l’idea di nazionalità si integrava con quello di sistema costituzionale, esso formava una miscela che, agli occhi di Pio IX, recideva alla radice il legame della duplice personalità pubblica di Papa e di sovrano, mettendo in discussione la legittimità del potere temporale così come era interpretato dalla prevalente tradizione ecclesiastica, e minacciava l’intero ordine religioso garantito dalla forza coercitiva delle leggi, che ritenute applicabili in tutti gli Stati cattolici, trovava la sua rappresentazione più alta nello Stato Pontificio.

Giovanni Corboli Bussi

Dopo la ritirata di Pio IX nella guerra contro l’Austria, con la motivazione che non si poteva fare la guerra contro altri cattolici, scrisse una lettera allo zio, il patrizio cremonese Girolamo Sommi Picenardi, a Roma, l’8 gennaio 1850, in cui illustrava le titubanze del Pontefice. Scrisse che la rivoluzione lombarda potesse paragonarsi più a una guerra di indipendenza da un popolo di invasori, piuttosto che a una rivolta nei confronti della monarchia, e che l’insoddisfazione delle scelte del Congresso di Vienna a quel punto poteva essere placata solo attraverso la guerra, che permetteva a quell’infinità di stati di poter esistere. La fusione delle terre lombarde e venete al Piemonte veniva visto come un atto di stoltezza, causante le rovine degli anni successivi. La raccomandazione era, ai lombardi, di non lasciarsi sopraffare dai repubblicani, perché in essi si nascondeva il socialismo e il comunismo. Il Papa, una volta iniziata la guerra, doveva scegliere se andare alle armi o puntare sulla mediazione pacifica, e scelse la seconda strada. Si ritirò, dunque, il 29 aprile. La paura era quella di un accanimento maggiore da parte dei tedeschi nella guerra, o ancora peggio, di uno scisma. Da che era un mito, Pio IX divenne un personaggio in decadenza nell’immaginario comune. Quella non poteva essere considerata una “guerra sacra” perché nessuna guerra lo è. E non ostacolava le scelte degli altri Stati, difendendosi dalla disubbidienza dei suoi generali che si erano uniti alla guerra, dicendosi comunque lieto se l’Italia fosse risorta e in modo indipendente.
Sui campi di Custoza, probabilmente si era compiuto il volere di Dio, perché i piemontesi convertirono la missione dell’indipendenza d’Italia con la voglia di raddoppiare i territori, mentre i lombardi non seppero contenere i repubblicani e militarmente non riuscirono ad organizzarsi. Inoltre erano rei di aver saccheggiato i beni ecclesiastici e di non aver saputo mantenere la libertà della Chiesa, non mutando le leggi da lei condannate, non liberando i parroci dalle leggi civili. Così la perdita a Custoza divenne scritta da Dio.
Le vicende del ’48 avevano portato a una forte demitizzazione del Papa. Chiesa e nazione vennero assumendo nuovi profili anche in ragione delle loro interazioni e delle diverse modalità in cui si dispiegarono, prendendo il 1848 come spartiacque.
Nella lettera citata c’erano tre punti in particolare. Nel primo Bussi mostrava di aver compreso la carica rivoluzionaria dell’idea nazionale connessa con il sistema rappresentativo, quindi conflittuale con il principio delle norme poste dagli Stati nei loro ordinamenti. Il ’48 era un passaggio, un cambiamento di valori condivisi, che aveva vanificato l’ipotesi di un cambiamento più negoziato e consensuale con i detentori legittimi della sovranità. Incompatibile con i postulati era la derivazione della sovranità dalla volontà nazionale. Da un lato, però, essa dipendeva dall’idea di nazione come aggregazione di comunità basate sulla famiglia, con rilancio delle teorie cattoliche del diritto naturale.
Un secondo aspetto concerne la guerra definita santa contro l’Austria. La guerra santa, però, è per la Cristianità, e non tra cristiani. Era un abuso di religione, dovuto all’era moderna che snaturava il suo significato intrinseco, superficializzandolo e disgregando i valori raccolti sotto la cristianità.
Un ultimo aspetto riguarda l’ammissione della sostanziale insolubilità tra il ruolo del pontefice come sovrano temporale di uno Stato italiano e il suo ruolo di vertice gerarchico, pastorale e istituzionale, della Chiesa universale. Il principio era quello della pienezza e dell’immodificabilità della sovranità temporale del pontefice, e della sua legittimazione religiosa, unita alla sua dimensione territoriale. Non avrebbe consentito una trasmissione ad altri soggetti delle funzioni e responsabilità governative, non come suggeriva Gioberti in mano a un governo costituzionale, o come diceva Rosmini, in una Dieta federale. Bisognava comunque arrivare a una revisione dei termini che giustificavano il potere temporale.

Separatismo tra Stato e Chiesa dopo il ‘48

Uno degli esiti del neoguelfismo fu l’assunzione da parte del cattolicesimo liberale di una più spiccata fisionomia nell’opinione pubblica. Dopo il ’48 c’era stato un fenomeno di delegittimazione della Chiesa istituzionale in tutta la sfera degli affari temporali, e una diffusa richiesta di delimitazione delle competenze del potere ecclesiastico, alimentando l’esigenza di una distinzione più marcata tra società civile e società religiosa. Queste istanze, però, si riflettevano sulla sua funzione spirituale, e quindi la Chiesa divenne talmente dura da far nascere delle correnti anti-temporaliste, che giudicavano anacronistico e provvisorio l’assetto restaurato nello Stato pontificio. La forza delle idee separatiste contagiò anche alcuni esponenti del clero, come monsignor Corboli Bussi, collaboratore di Pio IX.
Le più pertinenti idee sul separatismo vennero avanzate da esponenti cattolici, che vedevano nel costituzionalismo una buona alternativa sia al potere temporale, sia all’assolutismo.
La Chiesa doveva adeguarsi ai nuovi orientamenti liberali, ma con la dichiarata intenzione da parte di molti separatisti, di preservare o consolidare la funzione della religione cattolica come cemento e componente primaria dell’identità nazionale.
Nel post ’48 le ideologie nazionali e le movimentazioni politiche si coniugarono con le esigenze costituzionalistiche e rappresentative, in modi diversi a seconda dei vari stati, ma anche e soprattutto negli ambienti cattolici. La Chiesa rispose attraverso la censura del Sant’Uffizio delle opere di Gioberti, la revisione (con assoluzione) delle opere di Rosmini, e l’incremento di una cultura alternativa a quella liberale, soprattutto teologica e antropologica-politica.

Dora Melegari

Segue il pensiero teorico della divisione tra Stato e Chiesa, sia perché la Chiesa è definita come una comunione volontaria fondata sulla libertà dell’atto religioso, mentre lo Stato è un consorzio obbligatorio dotato del necessario attributo della forza, sia perché la Chiesa è assoluta e universale, non mutevole, mentre lo Stato è immerso in dinamiche di continuo adeguamento e di dissidenza tra le parti, implicite nel regime rappresentativo. Dunque, la Melegari ne deduceva un principio di reciproca incompetenza. Lo Stato doveva essere detentore della sovranità riconosciuta al potere temporale, la Chiesa dell’autonomia nello spirituale. La religione rimaneva comunque, nonostante la sua distinzione dalla sfera politica, insostituibile base dell’etica individuale e collettiva.

La Chiesa dopo il ’48. La rivista Civiltà Cattolica

Tra gli strumenti di controcultura cattolica ci fu la Civiltà Cattolica, rivista gesuita intransigente, a tiratura nazionale, che si basava sull’idea guelfa di esclusione del cattolicesimo da qualsiasi riforma che lo potesse portare ad errori della modernità, e l’enfasi posta sul primato e l’infallibilità pontificia. Alla base molte delle idee di Padre Taparelli, fondatore del periodico insieme all’ideatore Padre Curci. Si puntava a un’innovazione del cattolicesimo, mantenendo una linea dura. Ci si apriva alla Costituzione qualora questa non fosse eterodossa. Ci si svincolava dal destino degli altri stati puntando sul messaggio che essi erano costituiti da un’elite, mentre la religione era garanzia di stabilità, ma anche fattore di unione globale, e non di una minoranza. Una novità era nell’individuazione del cattolicesimo liberale quale peggior nemico della Chiesa, in quanto veicolatore di pericolose idee eterodosse.
Ci fu una volgarizzazione delle tesi taparelliane sulla nazionalità, attraverso i racconti-dialoghi Gli ospiti di Casorate o la Nazionalità, pubblicati dal 1853. Erano dialoghi tra un piemontese e un austriaco, ritrovatisi in una chiesa in Lombardia, mentre discettavano del fallimento dell’idea di nazionalità del ’48. Li moderava il parroco locale. Ne veniva fuori la distinzione concettuale del termine nazione sinonimo del termine Stato, e la nazione come società pubblica dotata di diritti ma non di sovranità.
Con la Civiltà Cattolica si affermava un’immagine guelfa e antiliberale del concetto di Stato nazionale, che trovava nel Papa un centro unitario religioso e morale, ma anche una risposta sufficiente all’unità politica. Il Papa, con la sua veste di capo spirituale e sovrano temporale, si costituiva come polo politico sostitutivo dello Stato nazionale. Tale idea venne supportata da una produzione di letteratura popolare come quella di Don Giovanni Bosco in Storia d’Italia, dove si sanciva l’indipendenza della Chiesa dalla libertà nazionale e la prosperità della nazione attraverso la sua unità religiosa. Idee che contribuirono, in modo parallelo e contrario a quelle liberali che puntavano alla costituzione e alla rappresentatività dello Stato, a delegittimare gli stati preunitari.

Charles de Montalembert

Nel 1852 scrisse Des interets catholiques au XIXeme siecle, dove sanciva l’impossibilità di avere un governo rappresentativo a Roma, e che l’opzione del sistema parlamentare era conveniente anche al cattolicesimo, perché simile al governo temperato dell’istituzione ecclesiastica. Questo accostamento scatenò le ire della rivista Civiltà Cattolica, in quanto il governo temporale non somigliava a quello costituzionale-rappresentativo, dove i sudditi sono chiamati a partecipare alla legislatura, ma era più simile a una monarchia rettamente ordinata, che rispetta il potere degli inferiori e i diritti dei sudditi per coscienza.

Nascita del Regno d’Italia (1858-1861)

Gli accordi tra Napoleone III e Cavour a Plombiéres avevano dei richiami neoguelfi: il regno dell’Alta Italia, la confederazione di Stati italiani con presidente onorario il Papa, la sovranità pontificia a Roma. Dopo la proclamazione tutto si dissolse a favore dell’unità e Roma venne dichiarata capitale del nuovo Stato nazionale, e non più dello Stato Pontificio, sotto il motto di “libera Chiesa in libero Stato”.
Fino a quel momenti si erano teorizzate soluzioni di compromesso, limitanti la sovranità territoriale del Pontefice, con l’obiettivo di smantellare man mano la sua intangibilità. Soluzioni rifiutate dal Papa in ragione del principio che non poteva accettare la volontà popolare, anche espressa a suffragio, come motivo sufficiente a collocare un altro sovrano su un trono già predisposto, e perché questo avrebbe provocato, in previsione, la fine del potere temporale.
Cavour scelse una strada più conciliante, immaginando una metamorfosi della sovranità pontificia con delle garanzie unilaterali. Si riconnetteva così alle teorie cattolico-liberali, a cui guardava con rinnovato interesse, convinto di poter accedere a una serie di vasti consensi in quell’area, in modo da non rendere il cambiamento traumatico. Le trattative iniziarono il 20 novembre del 1860, prendendo il nome dei due emissari piemontesi, Pantaleoni e Passaglia, ma essendo più radicali dei precedenti compromessi, non ebbero esito positivo.
Nonostante esistessero dei movimenti a favore del potere temporale, quale potere alla stregua di quello degli altri sovrani cattolici, spodestati o regnanti, che rispettava un principio di legittimità, non ci furono grandi reazioni a sua difesa, nemmeno quando nel post-unità vennero fatte delle riforme sulla nuova legislazione ecclesiastica, la parziale laicizzazione della scuola pubblica o sui beni e interessi ecclesiastici. Semmai, ci fu un miglioramento della qualità del clero, un’intensa attività pastorale e una fioritura di nuove congregazioni. La Chiesa, dunque, avrebbe tratto giovamento dalla sua nuova libertà.
Il Pontefice fece partire scomuniche e richiami ai fautori dell’unità nazionale, ma non prese nemmeno una decisione troppo ferma sugli obblighi derivanti dalla nuova situazione politica (leva, voto, assunzione nei pubblici uffici). Sul clero, invece, fu molto duro, perché nacquero dei movimenti autonomi e indipendenti che si dotavano di organi di stampa propri (il Conciliatore, il Mediatore, l’Emancipatore, il Carroccio) e di idee che prevedevano un adeguamento della Chiesa al nuovo ordinamento, in grado di fornire il rispetto dei diritti del clero e dei laici, oltre che un sistema religioso coerente con le libertà moderne. Respingevano inoltre lo Stato confessionale come lo Stato ateo. Quello che si auspicava era una riconciliazione tra Stato nazionale e Papa.
Con 4 encicliche il Papa manifestò tutta la sua contrarietà, e non si costituì mai un vero e proprio movimento nazionale, un po’ per il disinteresse delle autorità pubbliche che preferivano non immischiarsi negli affari ecclesiastici, un po’ per la mancata organizzazione del clero reazionario.
Da lì in poi la classe dirigente liberale punterà a una laicizzazione degli ordinamenti e a una riduzione dello spazio sociale fino ad allora riservato alla Chiesa, sia a mirare a Roma come capitale del Regno. Il Papa si opporrà, oltre che con le encicliche, con la teoria dell’infallibilità del pontefice uscita dal Concilio Vaticano del 1869-70. Il Papa ha un’autorità infallibile in materia di fede e costumi, e chiamava a raccolta tutta la Chiesa attorno al Papato. Si iniziò a esigere un clero romano e intransigente. A uno stato raccolto attorno ai principi della rivoluzione, la Chiesa opponeva una struttura raccolta attorno all’infallibilità del vicario di Cristo. All’idea di Stato liberale si opponeva, come alternativa, quella intransigente, un neoguelfismo uscito rafforzato dall’unità, ma esclusivamente nel campo ecclesiastico. Le tesi di De Maistre venivano qui realizzate.

Teorie sul costituzionalismo nella cultura cattolico-liberale

Sul costituzionalismo abbiamo tre autori in particolare, dalle posizioni discordanti e fluttuanti: Gioberti, Rosmini e Balbo.

Cesare Balbo - Fautore della costituzione moderata già dal 1821. Autore delle Speranze d’Italia nel 1848. In esse delineava la necessità di un “governo consultivo”, individuando nel sistema assolutistico la soluzione capace di non far interferire il movimento costituzionale con quello dell’indipendenza nazionale. Nel caso che la costituente fosse stata nelle mani di un sovrano – premessa essenziale per Balbo, che era ostile ad ogni assemblea costituente – la decisione di un governo deliberativo gli appariva negativa, perché fonte di disunioni e nociva per la causa dell’indipendenza. L’introduzione di un governo consultivo avrebbe comunque aperto la strada a un sistema deliberativo. Per Balbo era necessario attenuare il passaggio al sistema costituzionale, anche semplificando il sistema consultivo e quello della rappresentanza politica, tenendo sempre ferma la centralità istituzionale del sovrano.
Secondo Balbo si aveva la necessità, prima della Costituzione, di una fase in cui gli Stati italiani fossero in grado di autodeterminarsi politicamente, godendo di sovranità. Per lui, ciò non richiedeva un atto costituzionale preliminare, ma questo ne costituiva il presupposto.

Antonio Rosmini – Teorizzava l’argomento nella sua opera inedita Della naturale costituzione della società civile.

A pesare sulle loro opinioni furono gli insuccessi dei moti del 20-21 che avevano ripristinato un sistema ancora più conservatore del precedente. La lezione era che prima di introdurre la questione costituzionale bisognava fare largo lavoro sull’opinione pubblica, predisponendola a nuove riforme e a nuove forme di governo. Un cambiamento basato su presupposti ecclesiastici, ma in una civiltà progredita, che accogliendo la Costituzione sventava il pericolo di una rivoluzione, come invece non era stato in Francia. Questo processo non aveva bisogno di atti o riforme, perché era il naturale cambiamento dei tempi a determinarlo.
Al costituzionalismo erano sottese due facce: garanzia dei diritti e forme rappresentative. La rivoluzione poteva presentarsi qualora le forme rappresentative davano luogo a un unico organi rappresentativo e legislativo con potere illimitato, come era accaduto in Francia nell’89. Si dovevano privilegiare, dunque, i diritti e le riforme, garantendo l’uguaglianza dei cittadini nei confronti della legge. Cavour lo sapeva bene, e vedeva nella Costituzione l’esito di un cammino di preparazione dell’opinione pubblica attraverso una politica fatta maggiormente di riforme.
Su questo tema si sviluppano le differenze tra Balbo e Rosmini. Balbo credeva nelle conseguenze negative del fatto che in Italia era mancata l’esperienza di una grande monarchia nazionale, come era successo in altri paesi, quale presupposto per lo sviluppo di sistemi costituzionali. In Rosimini il discorso sulla Costituzione aveva una forte valenza ideologica nazionale e cattolica. La Costituzione italiana doveva allontanarsi dal modello francese, per proiettarsi su scala europea. Una linea che si riconduceva al Primato di Gioberti e alla sua idea di un carattere originario degli ordinamenti nazionali.
I cattolici liberali si mossero nelle teorizzazioni costituzionali molto più dopo il ’48 che prima. Questo perché, spiazzati dalla concessione dello Statuto da Ferdinando di Borbone a Napoli, e dalla corsa agli Statuti in tutta la penisola, delineava una naturale conseguenza di una politica di riforme, un’apertura di una nuova epoca risorgimentale, nonché un pericolo in quanto collegata a un’ondata di moti. Ora l’importante era mantenere questa fase nella prospettiva liberale e cristiana.

Gioberti – In occasione della corsa agli Statuti del ’48, Gioberti revisionò la sua opera il Gesuita moderno, che completò proprio nel ’48. In esso esaltava la svolta statutaria, in particolare del Piemonte e dello Stato pontificio, e ribadiva la sua idea di monarchia civile. Gli Statuti erano stati concessi grazie all’operazione di una sovranità latente, nascosta nell’opinione pubblica. I titolari della sovranità esecutrice, le monarchie, avevano concesso, in una fase riformatrice, le costituzioni, mettendo in rapporto le sovranità virtuali con quelle effettive. Gli Statuti, per Gioberti, erano da considerarsi su scala nazionale, perché prodotti e concessi nello stesso modo, che rientrava nella specificità del Risorgimento italiano, ossia nel concorso tra popolo e principi, che segna un’epoca di incivilimento, opposta a quando il potere era appannaggio di un solo individuo. Inoltre era un modo per dimostrare che lo statuto civile non erodeva, ma consolidava, il potere dei principi, perché lo rendeva più stabile e meglio garantito, anche se l’ipotesi era ardita, in particolare per lo stato sabaudo e pontificio.

Gli Statuti italiani prendevano le distanze da quelli francesi, ma si distanziavano anche da quelli germanici. Il vivere libero aveva bisogno di ordini rappresentativi, mentre nell’epoca moderna la differenza tra monarchia e repubblica stava nel carattere ereditario o elettivo del potere esecutivo. La situazione italiana rendeva obbligatoria la monarchia, perché l’eredità dell’esecutivo poteva darle stabilità e vigore. Il buon vivere civile, invece, poteva darlo sia la monarchia che la repubblica costituzionale, cha assicura libertà e uguaglianza grazie alla rappresentazione. In sintesi, non è dalla forma del potere che dipende la natura di uno Stato, ma dal modo in cui si fanno le leggi, basandosi sulla libertà e sulla civiltà. I temi di Gioberti si polarizzavano, dunque, nella garanzia dei diritti e le leggi venivano viste come limitazione del potere dell’esecutivo, il cui presidio legittimo doveva essere regolato con il concorso dell’organo rappresentativo.
In relazione allo Stato Pontificio e al cambiamento di status del pontefice in potere moderatore e non politico, liberando lo spirituale dal civile, implicava una netta separazione tra potere spirituale e temporale, con la completa laicizzazione del secondo.
La rappresentanza, secondo Gioberti, non veniva incarnata né dal suffragio universale, né dal suffragio a censo ristretto, bensì doveva lasciar spazio anche a piccoli possidenti, nonché a uomini provvisti di cultura. Qui si distanziava dalle teorie liberali secondo cui il rapporto tra proprietà e diritto di voto si giustificasse in relazione alla natura societaria della proprietà. Il rischio di una rappresentanza municipalistica veniva qui temperato grazie alla classe colta. Esisteva così una Camera alta, distinta per rappresentazione aristocratica, o di nomina regia, che aveva potere di revisione, e la Camera dei deputati, eleggibile e quindi rappresentativa. Il regime rappresentativo poteva risolvere i limiti di altre metodologie, come quella francese o statunitense, che basavano tutto sul numero, che generava poi tirannide. La democrazia era da una parte nella designazione di un’elite colta governativa, il riconoscimento delle qualità intellettuali e morali necessarie al governo, in cui si sostanziava la rappresentanza, dall’altra il fine politico della Costituzione. Gioberti voleva garantire i diritti e limitare i poteri.

Dopo il Primato del 1843 e l’Apologia del Gesuita moderno del 1848 il ciclo giobertiano aveva preso consensi in area cattolica e non, aveva dato nuove interpretazioni, talvolta anche ambigue, di cui si nutrì il mito di Pio IX. Il messaggio di Gioberti tentava di raccogliere, unificare e articolare in un discorso organico tutti i rivoli confluiti nel crogiolo guelfo. La rielaborazione giobertiana di esso portò alla rielaborazione e al collasso, facendo emergere le incompatibilità che erano al suo interno.
Nell’opera pre-48 la questione nevralgica era l’idea della nazione e dunque del rapporto tra nazione e Stato, ma non sulla base di una preliminare identificazione del popolo italiano come fattore legittimante. In polemica con Mazzini aveva osservato che se l’Italia fosse veramente un popolo unito, allora sarebbe inutile dargli un’unità che già avrebbero posseduto. Bisognava quindi definire un’idea che prescindesse dal popolo italiano, ancora inesistente come tale, e ne giustificasse la proiezioni in senso politico con la forma di Stato nazionale. E lo trovava nel cattolicesimo e nel Papato. Il cattolicesimo era il primo requisito di una nazione moderna e c’era la necessitò di scaricare le spalle del pontefice delle responsabilità del potere temporale.
Il conflitto tra Gioberti e i gesuiti (tra i massimi esponenti Carlo Maria Curci) derivava dal fatto che questi ultimi erano i depositari e i garanti più agguerriti di quel blocco dottrinale e teologico che, nella sua visione, impediva al cattolicesimo di porsi in consonanza con le norme etico-religiose di una società nazionale.

Antonio Rosmini – Mentre Gioberti elaborava l’Antologia, Rosmini, nella sua Costituzione secondo la giustizia sociale, sintetizzava ciò che avrebbe detto più tardi in Della naturale costituzione della società civile, pubblicata nel ’48, coperta da anonimato. Come Gioberti, Rosmini inquadra la rivoluzione degli Statuti in un’ottica nazionale, criticandone i tratti filo-francesi, dicendo che uno Stato italiano, in forma confederale, aveva bisogno di una sua Costituzione, e dunque quelli di quell’epoca avrebbero avuto vita breve. La sua dottrina della Costituzione diceva che si doveva estinguere la categoria signorile-dispotica che affossava i diritti personali e reali presenti nello Stato, perché non dipendenti dalla sua sanzione. La teoria di Rosmini era orientata a una nuova idea di sovranità, che non riguardava i metodi di suffragio. Il diritto di rappresentanza doveva basarsi sulla rappresentazione dei diritti reali e personali, creando due grandi categorie dell’amministrazione, dunque un non un voto universale adatto ai rappresentanti degli interessi materiali, che non sono uguali per tutti, e un voto universale per il Tribunale politico, dunque la giustizia politica, che deve essere uguale per tutti. Si puntava a una radicale trasformazione dell’ordinamento politico, che andava al di là della costituzionalizzazione dello Stato.
Rosmini identificava il principio di rappresentanza pienamente con quello della garanzia dei diritti, in base al criterio che essi devono essere rappresentati in modo diverso a seconda della loro specie. Sul piano politico, dunque, doveva esserci una proiezione diretta di una struttura di diritti. Il fine della costituzione era quello di impedire che il monopolio della forza necessario a garantire e amministrare la giustizia tra i privati si rovesciasse contro di essi, anche coperti dalla legge in forma dispotica. Il fine della società era nella tutela dei diritti e la Costituzione doveva provvedere alla tutela dei diritti dei cittadini nei confronti del potere governativo, ed esso si giustificava garantendo tali diritti, obiettivo realizzabile anche senza costituzione. Essa aveva comunque un senso come suprema garanzia di giustizia nei rapporti tra potere e cittadini. Ne conseguiva una delimitazione dell’autorità e delle competenze dello Stato, e una drastica riduzione delle sue attribuzioni di indirizzo politico nei confronti del libero esplicarsi della vita sociale.
Alla depoliticizzazione dello Stato corrispondeva un potenziamento religioso dal punto di vista dell’etica morale collettiva, come cementificazione della società. Bisognava quindi pensare ad una riforma della Chiesa che la inserisse nell’ordinamento costituzionale, più che a una vera e propria separazione. A Rosmini non importava che la religione cattolica venisse sancita dalle costituzioni, ma voleva delle garanzie sull’elezione dei vescovi e del clero secondo la vecchia maniera, riservata alla Santa sede.
Gli Statuti aprirono la questione costituzionale. L’11 luglio del 1848 il Parlamento subalpino disse di voler convocare un’assemblea costituente per discutere le basi della monarchia costituzionale della dinastia Savoia. I moderati, da sempre, avevano un’avversione nei confronti delle costituenti. Rosmini pubblica 12 articoli sul Risorgimento di Cavour e Balbo in cui cerca di superare tale ostilità. Si costituiva attraverso l’assemblea costituente, una nuova società che prima non esisteva (in questo caso, quella settentrionale), perché essa era l’atto fondativo della società. Distingueva quindi il processo di costituzionalizzazione di un’entità politica esistente, come il Regno di Sardegna o lo Stato pontificio, dal metodo costituende adeguato a un nuovo corpo politico nazionale (anche se per ora era dell’Alta Italia). L’atto costituente è la realizzazione di un patto associativo tra individui conferenti ad un’associazione civile la parte dei diritti necessari per la società, e non una proiezione di sovranità nazionale o popolare. La società nazionale è una nuova società civile.

Cesare Balbo – Assume idee simili a quelle di Rosmini nell’incompiuta Della monarchia rappresentativa in Italia. Secondo Balbo la teoria costituzionale non dipendeva dal periodo storico in cui si viveva – come Rosmini e Gioberti – ed ha un’ostilità nei confronti del primato italiano, ovvero di un ordinamento politico che non attinga a quelli europei. La concezione balbiana era di proiezione verso l’Europa, e accrescimento attraverso uno scambio tra le nazioni, perché tutte dell’ambiente costituzionale di matrice cristiana.
Balbo manteneva disgiunta la questione costituzionale da quella nazionale, e gli era estraneo il concetto di Gioberti che la nazione potesse rappresentare un nuovo simbolo di sovranità, come era contrario all’idea di Rosmini che la società nazionale fosse una nuova società civile. Erano due discorsi separati e la nazione poteva essere definita, in senso stretto, come un insieme di individui compresi in uno Stato, mentre in senso largo, un complesso di popolazioni e di Stati derivanti dalla medesima cultura e lingua. La nazione, quindi, non è il principio di origine della sovranità, perché essa è appannaggio del potere reggente, perché altrimenti creerebbe instabilità. La sovranità è per la sfera del potere, non per la nazione. La nazione è la causa finale che giustifica la sovranità. Le due storie si intersecano ma non si sovrappongono.
Gli Stati moderni, inoltre, sembrano fondarsi su monarchie rappresentative, ma questo non significa che anche l’Italia dovesse fare lo stesso. Balbo vedeva un sistema più adatto in più monarchie rappresentative (7-8) purché nazionali, e non estere.
Il principale obiettivo di Balbo era di confermare la monarchia rappresentativa a differenza di Gioberti che la vedeva come uno status di passaggio da distruggere. Solo nello spazio delle monarchie rappresentanza e democrazia si possono incontrare. E nella democrazia viene compresa una parte sociale che pur non identificandosi con il potere esige di avere accesso ai diritti politici e di concorrere al potere del sovrano. La democrazia di Balbo, quindi, è rappresentata, ma non mai rappresentativa. A differenza di Gioberti, Balbo non identificava un sistema costituzionale in cui il monarca regnava ma non governava, né un’astratta previsione di divisione dei tre poteri. Era necessaria invece una bilanciamento e un controllo dei tre poteri, all’interno di una sovranità articolata ma non divisa. Il principe e le due Camere sono entrambi partecipi al potere legislativo e a quello esecutivo, mentre il giudiziario, seppur indipendente, non è separato formalmente dai primi due. La monarchia rappresentativa secondo Balbo è l’unica in grado di assicurare la democrazia che non si traduca in tirannide sotto forma di sovranità popolare. In particolare era ispirato dal Parlamento inglese, ed era assolutamente contrario alle assemblee costituenti, considerate rivoluzionarie. Nel Parlamento, infatti, concorrono le tre forze dello Stato, ossia il monarca e le due Camere.
Balbo tenta di contemperare il potere dato del principe con quello prodotto dalla rappresentanza. Quindi non si pone il problema dell’elettorato, potenzialmente universale o con censo bassissimo, perché bisognava creare nuovi criteri di eleggibilità, affidando la politica a chi si è distinto per la propria notabilità (e dall’opinione). Il modello rappresentativo si traduce nella selezione tra coloro che hanno già un certo grado di rappresentatività. E la rappresentanza elettiva è lo strumento più adatto per selezionare una classe politica. Il metodo elettorale è solo per la Camera dei deputati, mentre la Camera alta è di nomina regia preferibile.
Dopo il ’48 le sue idee si differenziano notevolmente da quelle di Gioberti e Rosmini, che vedevano gli Statuti come una fase di passaggio, imitando le costituzioni straniere, inadeguate comunque allo stato nazionale. Balbo voleva legittimare lo Statuto Albertino e ne prospettava l’applicazione sul profilo della rappresentanza, nella prassi parlamentare e nell’articolazione dei poteri. Balbo aspirava ad una continuità dello Statuto nel Regno di Sardegna, che verrà invece forzato da Cavour, che predisporrà le condizioni effettive del primato nazionale dello Stato sabaudo. Infatti, solo attraverso una forzatura lo Statuto Albertino sarebbe potuto divenire il contenitore dello Stato nazionale.

Il crogiolo guelfo

La rinascita delle ideologie guelfe all’inizio dell’800 fu dovuta a:
1)     ondata antinapoleonica che aveva rimesso in primo piano il tema di Papato contro Impero, stavolta tradotto in papato contro popolo;
2)     mito di Pio VII, papa disarmato ma vittorioso oppositore nella tirannide della rivoluzione francese;
3)     ultramontanesimo come risposta alla crisi delle Chiese nazionali, esaltatori dell’infallibilità del pontefice;
4)     religione come cemento della società, fonte primaria di morale ed etica pubblica, in senso anti-illuministico;
5)     religione come garanzia di limite dell’esercizio del potere;
6)     religione che dava diritto alla cittadinanza e all’identità nazionale.
Il crogiolo guelfo si trovava in contrapposizione con le varie correnti in Italia che avevano una diversa ideologia sulla questione. De Maistre era dominato dalla fondazione sacrale della sovranità, creatrice strutturale della nazione. Manzoni era invece pervaso dal conflitto degli imperativi dati dalla coscienza cristiana e dalla sfera del potere, su cui si innestava un’idea di nazione separata e indipendente dalle forme politiche.
L’altra differenza era nei limiti dell’apporto della morale cattolica per la formazione di una morale civile a misura di nazione. Manzoni riprende il tema nel suo Osservazioni sulla morale cattolica, dove proponeva la piena identità tra la morale evangelica con quella impartita dalla Chiesa. Il problema venne approfondito da Gioberti che chiamò in causa la morale impartita dalla Chiesa e la conformazione del suo apparato dogmatico, teologico e istituzionale. Inoltre, visto che la morale cattolica era il fondamento della società, era necessario chiedersi quanto fosse adatta nella società moderna e nel progresso politico.
Cesare Balbo, sviluppando nelle Meditazioni storiche e poi le Speranze d’Italia, il canone di una civiltà cristiana progressiva che aveva generato la società moderna. Secondo lui i progressi della società erano dovuti alla maggiore influenza della morale cattolica, un progresso quindi della religione.
Diverso il pensiero delle correnti cattoliche intransigenti, che individuavano nella civiltà moderna un rovesciamento e una frattura di valori della Chiesa, due universi etici contrapposti. È vero che si professava anche l’utilità della religione nell’etica sociale, ma esisteva una differenza tra chi leggeva la dottrina fondata sulla verità rivelata, e chi la leggeva con lo sguardo rivolto al progresso, che era da condannare.

L’emergente conflitto tra i due volti del pontefice, monarca temporale e capo ecclesiastico risultava aggravato dal fatto che la seconda prerogativa stava subendo una metamorfosi. Il primato pontificio stava diventando un reale potere di governo sulla Chiesa universale, e si universalizzava nel momento in cui veniva considerato come centro ispiratore della nazionalità. Nella frammentata Italia lo Stato pontificio era rappresentativo, anche perché aveva un’elite dirigente interregionale, l’unica in grado di incidere su tutto il territorio nazionale, dotata di un’autorità che poteva sovrastare quella dei sovrani. Inoltre controllava e coordinava i movimenti religiosi italiani, cosa che non potevano fare gli Stati regionali dal post-restaurazione.

La democrazia di Gioberti

Il tema della democrazia occupa un posto di primo piano nell’opera giobertiana, ma si differenzia nel tempo in base alla mutevolezza del suo pensiero. In più il variegato sistema delle fonti usate e il mimetismo necessario all’epoca forniscono un substrato lessicale molteplice. Il discorso giobertiano sulla democrazia delinea le condizioni teoriche di una democrazia virtuosa e legittima, opposta a quella assoluta e dispotica, identificata con la democrazia diretta classica o con le assemblee rivoluzionarie. Per raggiungere questo obiettivo bisognava rifondare il concetto di sovranità, sottraendola alla volontà soggettiva – e quindi arbitraria – individuale o collettiva, ricollegandola invece a valori oggettivi dati, e non creati dall’uomo. Se Gioberti aveva condiviso con la cultura controrivoluzionaria della Restaurazione l’esigenza di ricorrere a sistemi di valori non dipendenti dalla volontà umana, e tali da costruire i riferimenti ultimi dell’ordine sociale e politico in senso opposto alla curvatura soggettivistica della modernità, per altro verso aveva preso le distanze da quella cultura fin dalle sue prime opere a stampa, come Teorica del soprannaturale e l’Introduzione allo studio della filosofia. Il solco che l’aveva separato dai teorici della Restaurazione dipendeva dal fatto di aver rappresentato i principi e i valori impressi nell’uomo dall’atto creativo di Dio mediante il lume della ragione e il dono del linguaggio, riaffermati dalla Rivelazione cristiana, come un sistema aperto alla libertà creatrice dell’uomo. E la storia è il momento in cui si realizza lo sviluppo, affidato alla libertà dell’uomo, benché soggetto ad errore, assimilato dalla Chiesa, che si traduce in un cammino di civiltà. La civiltà, dunque, dipende dal modo in cui gli uomini prendono coscienza delle proprie facoltà, in rapporto ai principi razionali e morali delle loro coscienze, coerenti con quelli formalizzati dalla Chiesa. La religione è un fattore essenziale di incivilimento, deposito di valori etici non dipendenti dall’uomo, ma sui quali l’uomo tesse la sua storia.
Ciò che distanziava Gioberti dalla cultura liberale, nonostante fosse su quella strada, era il concetto che il regno di Dio annunciato nel Vangelo rappresentasse un nuovo ordine di cose che cominciava con Cristo e si va svolgendo e ampliando successivamente sulla terra. Il regno promesso era un regno di salvezza politica e ultraterrena. L’estensione dei precetti del cristianesimo diventava la forma distintiva di una cristianità nuova, in un nuovo rapporto tra cristianità civile e Chiesa. La sua idea di democrazia si basava, soprattutto, sulla salvaguardia della libertà dell’individuo.

La democrazia aveva un significato teologico, era un punto di orientamento e non una forma di governo o di Stato che facesse risiedere nel popolo la sua legittimità. La democrazia non il “governo del popolo” ma ha radici più spirituali.

La democrazia di Gioberti si saldava con il sistema rappresentativo. La sua dottrina costituzionale si traduceva con l’espressione “stato civile” e aveva lo scopo di conciliare la linea garantista delle libertà individuali con il movimento verso la democrazia come sistema politico, e come dar voce politica alla democrazia intesa come popolo, cioè come riconoscergli rilevanza politica.
Gioberti aveva due accezioni di popolo:
1)     di natura politica: non si ha popolo in assenza di un fattore politico che lo costituisca come tale. È una collettività politicamente strutturata, risultato di un processo politico che non può partire dal popolo, perché non esiste.
2)     di natura sociologica: il popolo acquista significato di ceto sociale, differenziandosi dalla plebe o dall’aristocrazia.
Ostile – ma la superò nel Rinnovamento – al suffragio universale, ma anche ad una torsione elitaria della rappresentanza, che presupponeva capacità che non potevano essere conferite dal basso.
Il modello giobertiano si traduceva nel governo di una classe colta, in un sistema di aristocrazia elettiva, nella quale l’atto elettorale era finalizzato al riconoscimento pubblico delle qualità atte a svolgere funzioni legislative e di governo.
Bisognava garantire, inoltre, l’uguaglianza, la dignità e l’interesse comune. Il pensiero giobertiano si misurava nei modi e nei limiti in cui la democrazia, intesa come popolo, potesse avere un ruolo politico.

Il Rinnovamento civile d’Italia, pubblicato nel 1851, affronta la questione della democrazia con quello della nazionalità e del primato del pensiero e dell’ingegno, che costituiscono per Gioberti i tre assi della nuova età che si sta schiudendo in Europa, da cui dipenderà anche il destino dell’Italia.
Pur mantenendo le sue obiezioni concernenti l’idea che la legge possa essere il prodotto di una volontà generale che si traduce nella maggioranza, indipendentemente dalla conformità della ragione, il principio di maggioranza può essere comunque un progresso, male minore rispetto all’imposizione della forza, con cui l’aveva inizialmente identificato perché lascia spazio alla creazione di legge ingiuste.
Nel Rinnovamento cade la formula del governo misto di monarchia, aristocrazia e democrazia e Gioberti si attesta con l’idea di democrazia come tutto, e non come parte, in un’accezione sociologica di popolo come corpo sociale che può unirsi, e non c’è un modo per definire dove inizi o finisca una classe.
La democrazia era predominio non del governo ma del popolo. Gioberti sovrapponeva al concetto di popolo come corpo sociale quello ideologico di sintesi tra plebe e ingegno. Quest’ultimo rappresentava la moltitudine, e da qui nasce la sua autonomia e sovranità intrinseca, essendo delegato al popolo, perché di Dio e della natura, e non per elezione arbitraria degli uomini, ma per vocazione naturale. Nella sovranità dell’ingegno finiva per risolversi la questione della sovranità popolare.

Gioberti poi approdava al principio di suffragio universale come criterio per identificare la propria classe politica, grazie all’ingegno che metteva ordine negli istinti della moltitudine, e da qui l’origine naturale della rappresentanza. Il voto universale poteva essere applicato a tutti gli uffici, quello che realmente importava era la libera elezione dei magistrati legislativi ed esecutivi. Nella dottrina giobertiana si delineava un sistema simile a quello americano, in precedenza criticato. Avversione verso l’assemblearismo parlamentare lo induceva a dire che il rinnovamento italiano doveva fondarsi nei magistrati esecutivi più che nelle assemblee pubbliche perché da essi poteva nascere un buon ordinamento. 

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