RELIGIONE CATTOLICA E STATO NAZIONALE
Padre Taparelli d’Azeglio
Padre gesuita, fratello di
Massimo d’Azeglio. Scrisse Esame critico
degli ordini rappresentativi nella società moderna nel 1854. I sistemi
rappresentativi utilizzati in tutta l’Europa continentale, più che essere un
cambiamento e una modernizzazione delle forme di governo, era un attentato al
cattolicesimo. In questi ordinamenti l’individuo è indipendente, il popolo
sovrano, la legge fatta da una pluralità. Nell’opera si ritrova la contrapposizione
tra idea di patria in senso cattolico e idea di Stato nazionale moderno, la
prima inserita in un ordine naturale di comunità, il secondo in un ordine
artificiale di poteri. La libertà di coscienza, a suo avviso, distruggeva
l’unità della società. La società è fatta di diversi livelli, formata da
individui con diritti e doveri che devono essere riconosciuti e valorizzati.
Ogni livello deve cooperare razionalmente e non fomentare competizioni e
conflitti, animati da passioni che sono sempre nocive.
Scrisse il Saggio teoretico di diritto naturale
appoggiato sul fatto nel 1840-1843. Con esso va in conflitto esplicito con
Gioberti, che aveva promosso una campagna contro gli autori gesuiti, e anche
con il fratello Massimo nelle sue Speranze d’Italia, sulla questione di
nazionalità. L’opinione del fratello era che il primo tra i diritti era il
perseguimento dell’indipendenza, ma in questa affermazione Padre Taparelli
vedeva la confusione tra indipendenza dell’Italia dallo straniero e
l’indipendenza dei sudditi dai principi. Il rapporto tra nazionalità e
sovranità era la chiave dell’opuscolo Della
nazionalità, del 1847.
Taparelli aveva idee
tradizionaliste e per lui la nazione era il prodotto della naturale tendenza
umana a formare e riconoscersi in comunità sempre più ampie, imperniate sulla
famiglia. Posta la comunità di origine, la lingua comune come elementi
essenziali della nazione, le altre forme come il territorio e le istituzioni
politiche erano variabili, e quindi non necessarie per la nazione. Bisognava
tener distinta l’idea di nazione da quella di unità sociale, perché se il
diritto di sovranità è legittimo esso prevale sul diritto di indipendenza, che
diventa non necessaria. Essa può essere un bene, ma a patto che non vada in
conflitto con i principi generali di giustizia e detrimento dei diritti dei
popoli confinanti, e rimaneva comunque affidato ai reggenti dei popoli,
detentori della sovranità.
Alla fine degli anni ’40
Gioberti andò in forte contrasto con le sue idee. Mentre Gioberti poneva religione
e nazionalità in una relazione dialettica, Taparelli la raffigurava come parte
del tutto, in un modello di repubblica cristiana. Escludeva che il principio di
nazionalità potesse essere portatore di nuovo diritto o legittimità politica,
perché lì si poteva scorgere uno spirito rivoluzionario proprio dell’epoca
moderna. Per il padre gesuita poteva esistere la nazione con la sua rilevanza
storica, ma la subordinava a un ordine di diritti e fini, al principio di unità
religiosa e al primato normativo della Chiesa. Le forme politiche potevano
essere legittimate – ma non assolutisticamente – dalla Chiesa stessa.
Il Saggio teoretico tentò di collocare l’idea di nazione al di fuori
della struttura liberale e divenne un punto di riferimento, dopo il ’48, dalla
parte della cristianità che affondava le sue radici nella condanna delle idee
liberali.
Ultramontanesimo
Corrente che si crea negli
anni della Restaurazione. È un romanesimo di ritorno, che sanciva il primato e
la libertà di San Pietro, come della supremazia del potere temporale e
spirituale, oltre che la garanzia della libertà della Chiesa da vincoli
giudiziari degli Stati, soprattutto dopo la Rivoluzione francese.Tra l’idea di
papato e l’idea di primato nazionale si trasferiva in quest’ultimo l’immagine
biblica del popolo eletto e della nazione santa.
Nel guelfismo italiano
convergevano tre temi di natura:
1)
teologico-politica:
sulla sfera concettuale della sovranità legittima;
2)
etico-civile (sul
ruolo civile del cattolicesimo e del rapporto tra religione e incivilimento;
3)
storico-nazionale:
sul ruolo del Papato nella storia della nazione italiana.
Joseph De Maistre
Scrisse nel 1819 il Du Pape. Esso indagava la
compenetrazione tra sfera religiosa e sfera politico-sociale. La sovranità,
secondo De Maistre, era ad appannaggio del Pontefice, in quanto detentore del
potere spirituale e temporale, dunque garante dei principi di libertà della
nazione, anche dall’invasore straniero, in particolare quello germanico. Nel
rapporto tra sovranità e nazione sanciva che è il sovrano stesso a dover dare
alla nazione un’esistenza sociale, e non il contrario (dunque, non ammetteva la
sovranità popolare).
Alessandro Manzoni
Scrisse nel 1819 le Osservazioni sulla morale cattolica.
Manzoni si distanzia dalle idee precedentemente esposte, separando la religione
dalla politica. Offre una rappresentazione della morale cattolica al di fuori
del tempo, attraverso i Vangeli e la Rivelazione, oltre che con l’educazione
morale della Chiesa. Tutto ciò permetteva a Manzoni di distanziare i due
contesti, perché la religione prescrive all’uomo di essere giusto in qualsiasi
sistema, e solo attraverso la mediazione delle coscienze la religione può
cambiare delle istituzioni, qualora esse risultassero dannose.
Scrisse nel 1822 il Discorso sui Longobardi. Affrontò qui i temi della nazionalità, in netta
contrapposizione con quelli di sovranità affrontati da De Maistre. Nella
visione evangelica della questione, Manzoni afferma che l’identità nazionale
persiste al di là dei detentori della sovranità e del potere. Per questo porta
l’esempio del popolo latino, oppresso da quello longobardo, ma detentore della
sua identità nazionale che non si unì mai con quella dell’altro. Era il
presupposto storico che consentiva all’autore di dimostrare un dualismo nella
storia italiana. I pontefici romani non sono raffigurati da Manzoni come
difensori della libertà politica della nazione, ma come oggetti di venerazione
e di terrore da parte dei loro nemici. Non sono detentori di sovranità e il
Papa non viene visto come detentore del potere temporale, ma sostenuto da una
Chiesa che è esclusivamente un’autorità religiosa. Il Papa dava speranza, ma
non aveva funzioni politiche, perché la religione dava un’identità nazionale al
popolo che andava al di là delle strutture politiche.
Negli anni ’20 il clima
ecclesiastico inizia a mutare, e con la libertà di stampa e di associazionismo
si iniziano a creare nuove idee legate anche al concetto di Chiesa, nazione e
sovranità.
Correnti guelfo-legittimiste: mettevano in relazione il potere dei sovrani con
l’autorità religiosa, rischiando di minacciare gli equilibri raggiunti tra
Stati e Chiesa nel periodo della Restaurazione.
Correnti guelfo-nazionali: interveniva il terzo fattore della nazione, che però
aveva una sua indipendenza da quello spirituale e temporale, come nel discorso
manzoniano.
Giocchino Ventura
Scrisse Dello spirito della rivoluzione e dei modi di farla cessare nel
1833. Teorizzava un’alleanza tra popolo e papato, anticipando gli argomenti di
Gioberti.
Antonio Rosmini
Scrisse le Delle cinque piaghe della Santa Chiesa nel 1832, messa all’Indice nel ’49,
ripubblicata nel ‘66. Definiva una serie di prerogative e diritti del popolo
cristiano in ambito ecclesiastico accompagnando la formulazione di una teoria
costituzionale sul piano politico, che infrangeva la concezione sacrale di
sovranità demaistriana.
Le Cinque piaghe sono una delle espressioni più singolari del
riformismo cattolico ottocentesco. L’autore fa corrispondere le piaghe del
crocefisso sulle mani di Cristo, che permisero il suo riconoscimento una volta
risorto, con le piaghe che si erano aperte nella Chiesa nel corso della sua
storia. In particolare esse erano cinque:
1)
divisione del
popolo dal clero nel pubblico culto
2)
divisione dei
vescovi
3)
insufficiente
educazione del clero
4)
nomina dei
vescovi abbandonata al potere laicale degli Stati
5)
servitù dei beni
ecclesiastici e il loro uso a scopi profani.
Ad ogni piaga c’erano
possibili rimedi. Rosmini basava tutto sulla raffigurazione paolina della Chiesa,
quale corpo mistico di Cristo, percepito nella corporeità ferita, le cui piaghe
erano il segno più evidente del suo cristomorfismo. Rosmini non faceva
discendere la storia della Chiesa solo dal divino – che non confutava – ma la
rapportava all’evoluzione di qualsiasi società civile, con le sue regole di
base, costituite di individui. La differenza tra la storia della Chiesa e la
storia delle società umane non è nell’esenzione della prima da fenomeni di
alterazione per la sua natura divina, ma nel fatto che in essa ci siano fattori
di crisi e di riforma interagenti e correlati. Era la duplice visione di una
storia della Chiesa immersa nel bene e nel male che fa parte della storia
umana, ma anche delle vie nascoste e paradossali della Provvidenza.
Rosmini rendeva una
connessione essenziale tra la cura delle piaghe della Chiesa e la coscienza che
esse si erano aperte in una determinata epoca, di cui erano la risultante. La
storicità delle piaghe implicava il risanamento delle stesse, ma per essere
efficace si doveva essere consapevoli delle ragioni storiche che le avevano
generate.
Il modello di riferimento
medievale doveva essere accantonato. Dalla fine dell’Impero romano la divina
provvidenza aveva guidato la Chiesa all’obiettivo di far entrare la religione
di Cristo nella società o di creare una nuova società cristiana. Quando questo
risultato venne conseguito, non ci fu una conversione dell’Impero, ma la sua
distruzione. Ciò aveva avviato un cammino di introduzione della dottrina
cristiana all’interno della società. La realizzazione di un simile disegno
aveva richiesto, come condizione primaria, quella che la Chiesa aderisse alla
società in cui agiva. Dunque, un processo di secolarizzazione della vita e
delle istituzioni ecclesiastiche, chiamate a intrecciare rapporti sempre più
stretti con l’epoca in questione, acquisendone spirito e forme, spesso
assoggettandosi a poteri e a interessi secolari. La secolarizzazione veniva
vista come l’unico modo per edificare la cristianità. Le piaghe erano il segno del
prezzo pagato dalla Chiesa del cammino compiuto nella società umana per la sua
conversione, collocato tra due epoche. Quella dei primi sei secoli di storia
cristiana, quando a dover essere convertite erano singole persone, e l’epoca
che Rosmini credeva appena dischiusa, in cui è finalmente possibile la cura
delle piaghe. La Chiesa doveva subire una purificazione, riconquistando lo
spirito e l’identità originaria, ma passati attraverso il filtro della
secolarizzazione. Rosmini faceva riferimento anche alla positività della
diffusione delle teorie evangeliche all’interno della società, come nella mente
dei sovrani regnanti. Ma ora questa missione era consumata e bisognava
prepararsi ad una nuova epoca. Si erano susseguite, nella storia della Chiesa,
fasi di evoluzione e fasi di stasi, in cui si rimediava ai danni. Ora, in
particolare, si faceva riferimento a due problemi, ossia la declinante
formazione del clero e del popolo cristiano, sempre più immersi nel
razionalismo, e la crescente subordinazione degli episcopati nazionali al
potere dei principi.
Rosmini vedeva nell’epoca
post-tridentina un periodo di transizione. L’epoca iniziata con la fine
dell’Impero romano si era conclusa perché aveva dato tutto quello che poteva, e
la fase medievale aveva portato alla disgregazione e alla presa di coscienza di
una vulnerabilità della Chiesa. Ora, l’epoca post-rivoluzione francese era una
fase di cambiamento, proprio come il crollo dell’Impero romano, e la novità
delle Cinque piaghe non è solo
nell’individuazione delle stesse, ma soprattutto nel suo tentativo di
risoluzione, a partire da un’analisi più approfondita, concernente anche il
periodo storico di riferimento e la società umana di quel tempo.
Nel 1848 avvenne una
definitiva saldatura tra movimento nazionale, principi costituzionale e
disgregazione del principio di legittimità su cui si fondavano gli stati
italiani. Secondo Rosmini, in quel panorama, non era più il caso di parlare di
nazionalità, perché il processo verso la sua formazione era inarrestabile per
via del consenso unanime che avrebbe portato a ordinamenti costituzionali e
rappresentativi. Bisognava arrivarci in un modo che non andasse, però, in
conflitto con la Chiesa e suggerì un costituzionalismo che si ispirasse a
sistemi di rappresentanza e istituti diversi da quelli francesi. Una
confederazione di stati italiani con identici ordinamenti costituzionali e
uniformi nei governi, rappresentati a Roma da una dieta nazionale e da un
concistoro papale con funzioni di alta corte di giustizia. Svincolare, dunque,
il Papa dai suoi poteri politici per potergli assegnare quelli di guida
spirituale, protettore della nazione e suprema istanza giurisdizionale, ma non
politica. Idee molto simili, tra l’altro, a quelle di Gioberti.
Gioberti
Scrisse nel 1843 il Primato morale e civile degli italiani,
che ebbe in 5 anni 11 edizioni e ristampe, e vendette 80.000 copie. Conciliò
voci diverse e diede voce alle attese che si erano profilate nel decennio
precedente. Penetrò negli ambienti ecclesiastici diffondendo la concezione
dell’idea di nazionalità.
Il Primato era un Du Pape
rovesciato, perché applicava alla nazione italiana le prerogative di sovranità
date al Papa da De Maistre. Gioberti si incentrava, invece, sul rapporto tra
religione, civiltà e nazionalità.
Parte del suo successo è
stata l’applicazione di figure bibliche nella vicenda storica e civile del
popolo italiano (popolo eletto, nazione sacerdotale). Il Risorgimento, per
Gioberti, significava “redenzione”, dovuta al fatto che l’Italia fosse una
nazione sacerdotale, e dunque “resurrezione”.
Gioberti dava al Pontefice il
ruolo di capo civile d’Italia, simbolo di unità religiosa, morale e civile
della nazione, ben distinta dalle sue funzioni temporali. Dalla religione
discendono le civiltà. All’emancipazione del potere laico proprio della
modernità, e alla crescita di una coscienza nazionale autonoma, doveva
corrispondere una riforma intellettuale e morale del cattolicesimo, per potersi
reinserire con forza nello spirito del tempo.
Nel Primato convivevano la massima tesi guelfa per cui il cattolicesimo
romano e papale erano un principio fondamentale per l’identificazione della
nazionalità, e la sua trascrizione in una linea di riformismo religioso,
culturale e politico.
Se De Maistre legava il Papa
alla sovranità, Gioberti legava il Papa alla nazione. Immaginava una
confederazione di stati presieduta dal Papa, che doveva fungere da moderatore,
e quindi delineava un ordinamento di monarchie consultive che cooperano tra di
loro, sotto la pacificazione pontificia, di stampo settecentesco più che
orientato verso la modernità.
Con Prolegomeni del Primato del 1845 e Gesuita moderno del 1846-46, Gioberti porta avanti una campagna di
contrapposizione ideologica con i gesuiti, in quanto categoria morale
contrapposta al cattolicismo. Gioberti assaliva i principi essenziali del
cattolicismo romano e papale, sposando la causa di una riforma religiosa che lo
avvicinava a Machiavelli o a Sismondi: la morale cattolica come motivo della
decadenza italiana.
Gioberti va in discussione
con Padre Taparelli, amplificando le sue posizioni in modo più esplicito. La
sua idea di nazione è quella di una persona collettiva di fronte al diritto
pubblico, un dato permanente formato sul territorio, la razza, la lingua, bene
sociale dei popoli e connotato dell’indipendenza come sua condizione di
esistenza, producente una propria forma politica. I cittadini devono promuovere
l’indipendenza con i mezzi privati e pubblici che hanno a disposizione e la
religione, non facendo sviluppare il suo naturale spirito nazionale, l’ha resa
imperfetta. Con un incontro tra religione e idea nazionale si può trasformare
anche la storia della civiltà integrandola così nella storia della salvezza.
Nel 1851 Gioberti dà alle
stampe il suo nuovo libro Del Rinnovamento
civile d’Italia in cui radicalizza le sue posizioni affermando che il
neoguelfismo è ormai superato, identificabile con il periodo del Risorgimento,
e che ora c’è una nuova fase di rinnovamento civile. La Roma ecclesiastica
ripugna il principio nazionale e civile, dunque non può essere il motore della
realizzazione del rinnovamento italiano.
Se prima del ’48 ci furono
autori come Cesare Balbo che teorizzavano, in Speranze d’Italia, una saldatura tra la forza spirituale di Roma e
la forza politico-militare del Piemonte sabaudo, dopo il ’48 era aperto tra le
due un conflitto, per riunirsi nello Stato liberale. Per Gioberti l’egemonia
del movimento nazionale del Piemonte era la diretta conseguenza del fatto che
lo Stato sabaudo, unica entità politica della penisola, avesse convalidato una
conversione tra principio di legittimità dinastico-assolutistico a un principio
nazionale-rappresentativo. Questo poté avvenire perché lo Stato sabudo
resistette alle pressioni della Santa sede e alle resistenze di Vittorio
Emanuele II, complice l’onda costituzionalista e uomini di governo non
condizionati da conflitti di natura religiosa. L’egemonia del movimento
nazionale da parte di uno Stato costituzionale a regime parlamentare veniva
visto dalla Santa sede come una minaccia rivoluzionaria, altamente aggressiva.
Lo Stato sabaudo ebbe il suo
successo come classe politica nazionale grazie al fatto di esser riuscito ad
inglobale un numero consistente di uomini che professavano la religione
cattolica, molti dei quali passati attraverso il neoguelfismo, ma anche per
raccogliere consensi da parte di un clero influente sull’aristocrazia e sulla
borghesia liberale, oltre che sulle classi popolari urbane. Una classe
eterogenea accomunata dall’idea di una nazione interconnessa da principi di
costituzionalismo.
Nel Rinnovamento Gioberti si esprime sul separatismo tra Stato e
Chiesa, dicendo che con esso non si voleva ridurre la religione a semplice
affare privato, ma a una divisione di giurisdizioni.
Pio IX
Pio IX aveva compiuto dei
passi a favore dell’unità nazionale, ma che andavano in aperto conflitto con il
suo ruolo di sovrano temporale. Quando venne instaurata, nel 1848, la
Repubblica Romana, egli non nascose sentimenti di avversione per i sistemi
costituzionali, pur cedendo alle pressioni dei fautori della costituzione. Ne
uscì un ordinamento ibrido, a metà tra la trasposizione dei principi religiosi
e quelli liberali, anche se i suoi esponenti furono illustri (Minghetti,
Mamiani, Farini, Pasolini, Pantaleoni, Pellegrino Rossi). Rifugiatosi a Gaeta,
Pio IX si mostrò estremamente riluttante a tutte le libertà costituzionali, di
stampa o di associazione che vennero concesse, ritenendole cattive, e
solidarizzò con gli altri sovrani che si erano distaccati dal movimento nazionale.
Nel momento in cui l’idea di
nazionalità si integrava con quello di sistema costituzionale, esso formava una
miscela che, agli occhi di Pio IX, recideva alla radice il legame della duplice
personalità pubblica di Papa e di sovrano, mettendo in discussione la
legittimità del potere temporale così come era interpretato dalla prevalente
tradizione ecclesiastica, e minacciava l’intero ordine religioso garantito
dalla forza coercitiva delle leggi, che ritenute applicabili in tutti gli Stati
cattolici, trovava la sua rappresentazione più alta nello Stato Pontificio.
Giovanni Corboli Bussi
Dopo la ritirata di Pio IX
nella guerra contro l’Austria, con la motivazione che non si poteva fare la
guerra contro altri cattolici, scrisse una lettera allo zio, il patrizio
cremonese Girolamo Sommi Picenardi, a Roma, l’8 gennaio 1850, in cui illustrava
le titubanze del Pontefice. Scrisse che la rivoluzione lombarda potesse
paragonarsi più a una guerra di indipendenza da un popolo di invasori,
piuttosto che a una rivolta nei confronti della monarchia, e che
l’insoddisfazione delle scelte del Congresso di Vienna a quel punto poteva
essere placata solo attraverso la guerra, che permetteva a quell’infinità di
stati di poter esistere. La fusione delle terre lombarde e venete al Piemonte
veniva visto come un atto di stoltezza, causante le rovine degli anni
successivi. La raccomandazione era, ai lombardi, di non lasciarsi sopraffare
dai repubblicani, perché in essi si nascondeva il socialismo e il comunismo. Il
Papa, una volta iniziata la guerra, doveva scegliere se andare alle armi o
puntare sulla mediazione pacifica, e scelse la seconda strada. Si ritirò,
dunque, il 29 aprile. La paura era quella di un accanimento maggiore da parte
dei tedeschi nella guerra, o ancora peggio, di uno scisma. Da che era un mito,
Pio IX divenne un personaggio in decadenza nell’immaginario comune. Quella non
poteva essere considerata una “guerra sacra” perché nessuna guerra lo è. E non
ostacolava le scelte degli altri Stati, difendendosi dalla disubbidienza dei
suoi generali che si erano uniti alla guerra, dicendosi comunque lieto se
l’Italia fosse risorta e in modo indipendente.
Sui campi di Custoza,
probabilmente si era compiuto il volere di Dio, perché i piemontesi
convertirono la missione dell’indipendenza d’Italia con la voglia di
raddoppiare i territori, mentre i lombardi non seppero contenere i repubblicani
e militarmente non riuscirono ad organizzarsi. Inoltre erano rei di aver
saccheggiato i beni ecclesiastici e di non aver saputo mantenere la libertà
della Chiesa, non mutando le leggi da lei condannate, non liberando i parroci
dalle leggi civili. Così la perdita a Custoza divenne scritta da Dio.
Le vicende del ’48 avevano
portato a una forte demitizzazione del Papa. Chiesa e nazione vennero assumendo
nuovi profili anche in ragione delle loro interazioni e delle diverse modalità
in cui si dispiegarono, prendendo il 1848 come spartiacque.
Nella lettera citata c’erano
tre punti in particolare. Nel primo Bussi mostrava di aver compreso la carica
rivoluzionaria dell’idea nazionale connessa con il sistema rappresentativo,
quindi conflittuale con il principio delle norme poste dagli Stati nei loro
ordinamenti. Il ’48 era un passaggio, un cambiamento di valori condivisi, che
aveva vanificato l’ipotesi di un cambiamento più negoziato e consensuale con i
detentori legittimi della sovranità. Incompatibile con i postulati era la
derivazione della sovranità dalla volontà nazionale. Da un lato, però, essa
dipendeva dall’idea di nazione come aggregazione di comunità basate sulla
famiglia, con rilancio delle teorie cattoliche del diritto naturale.
Un secondo aspetto concerne
la guerra definita santa contro l’Austria. La guerra santa, però, è per la
Cristianità, e non tra cristiani. Era un abuso di religione, dovuto all’era
moderna che snaturava il suo significato intrinseco, superficializzandolo e
disgregando i valori raccolti sotto la cristianità.
Un ultimo aspetto riguarda
l’ammissione della sostanziale insolubilità tra il ruolo del pontefice come
sovrano temporale di uno Stato italiano e il suo ruolo di vertice gerarchico,
pastorale e istituzionale, della Chiesa universale. Il principio era quello
della pienezza e dell’immodificabilità della sovranità temporale del pontefice,
e della sua legittimazione religiosa, unita alla sua dimensione territoriale.
Non avrebbe consentito una trasmissione ad altri soggetti delle funzioni e
responsabilità governative, non come suggeriva Gioberti in mano a un governo
costituzionale, o come diceva Rosmini, in una Dieta federale. Bisognava
comunque arrivare a una revisione dei termini che giustificavano il potere
temporale.
Separatismo tra Stato e Chiesa dopo il ‘48
Uno degli esiti del
neoguelfismo fu l’assunzione da parte del cattolicesimo liberale di una più
spiccata fisionomia nell’opinione pubblica. Dopo il ’48 c’era stato un fenomeno
di delegittimazione della Chiesa istituzionale in tutta la sfera degli affari
temporali, e una diffusa richiesta di delimitazione delle competenze del potere
ecclesiastico, alimentando l’esigenza di una distinzione più marcata tra
società civile e società religiosa. Queste istanze, però, si riflettevano sulla
sua funzione spirituale, e quindi la Chiesa divenne talmente dura da far
nascere delle correnti anti-temporaliste, che giudicavano anacronistico e
provvisorio l’assetto restaurato nello Stato pontificio. La forza delle idee
separatiste contagiò anche alcuni esponenti del clero, come monsignor Corboli
Bussi, collaboratore di Pio IX.
Le più pertinenti idee sul
separatismo vennero avanzate da esponenti cattolici, che vedevano nel
costituzionalismo una buona alternativa sia al potere temporale, sia
all’assolutismo.
La Chiesa doveva adeguarsi ai
nuovi orientamenti liberali, ma con la dichiarata intenzione da parte di molti
separatisti, di preservare o consolidare la funzione della religione cattolica
come cemento e componente primaria dell’identità nazionale.
Nel post ’48 le ideologie
nazionali e le movimentazioni politiche si coniugarono con le esigenze
costituzionalistiche e rappresentative, in modi diversi a seconda dei vari
stati, ma anche e soprattutto negli ambienti cattolici. La Chiesa rispose
attraverso la censura del Sant’Uffizio delle opere di Gioberti, la revisione
(con assoluzione) delle opere di Rosmini, e l’incremento di una cultura
alternativa a quella liberale, soprattutto teologica e antropologica-politica.
Dora Melegari
Segue il pensiero teorico
della divisione tra Stato e Chiesa, sia perché la Chiesa è definita come una
comunione volontaria fondata sulla libertà dell’atto religioso, mentre lo Stato
è un consorzio obbligatorio dotato del necessario attributo della forza, sia
perché la Chiesa è assoluta e universale, non mutevole, mentre lo Stato è
immerso in dinamiche di continuo adeguamento e di dissidenza tra le parti,
implicite nel regime rappresentativo. Dunque, la Melegari ne deduceva un
principio di reciproca incompetenza. Lo Stato doveva essere detentore della
sovranità riconosciuta al potere temporale, la Chiesa dell’autonomia nello
spirituale. La religione rimaneva comunque, nonostante la sua distinzione dalla
sfera politica, insostituibile base dell’etica individuale e collettiva.
La Chiesa dopo il ’48. La rivista Civiltà Cattolica
Tra gli strumenti di
controcultura cattolica ci fu la Civiltà
Cattolica, rivista gesuita intransigente, a tiratura nazionale, che si
basava sull’idea guelfa di esclusione del cattolicesimo da qualsiasi riforma
che lo potesse portare ad errori della modernità, e l’enfasi posta sul primato
e l’infallibilità pontificia. Alla base molte delle idee di Padre Taparelli,
fondatore del periodico insieme all’ideatore Padre Curci. Si puntava a
un’innovazione del cattolicesimo, mantenendo una linea dura. Ci si apriva alla
Costituzione qualora questa non fosse eterodossa. Ci si svincolava dal destino
degli altri stati puntando sul messaggio che essi erano costituiti da un’elite,
mentre la religione era garanzia di stabilità, ma anche fattore di unione
globale, e non di una minoranza. Una novità era nell’individuazione del
cattolicesimo liberale quale peggior nemico della Chiesa, in quanto veicolatore
di pericolose idee eterodosse.
Ci fu una volgarizzazione
delle tesi taparelliane sulla nazionalità, attraverso i racconti-dialoghi Gli ospiti di Casorate o la Nazionalità, pubblicati dal 1853. Erano
dialoghi tra un piemontese e un austriaco, ritrovatisi in una chiesa in
Lombardia, mentre discettavano del fallimento dell’idea di nazionalità del ’48.
Li moderava il parroco locale. Ne veniva fuori la distinzione concettuale del
termine nazione sinonimo del termine Stato, e la nazione come società pubblica
dotata di diritti ma non di sovranità.
Con la Civiltà Cattolica si affermava un’immagine guelfa e antiliberale
del concetto di Stato nazionale, che trovava nel Papa un centro unitario
religioso e morale, ma anche una risposta sufficiente all’unità politica. Il
Papa, con la sua veste di capo spirituale e sovrano temporale, si costituiva
come polo politico sostitutivo dello Stato nazionale. Tale idea venne
supportata da una produzione di letteratura popolare come quella di Don
Giovanni Bosco in Storia d’Italia,
dove si sanciva l’indipendenza della Chiesa dalla libertà nazionale e la
prosperità della nazione attraverso la sua unità religiosa. Idee che
contribuirono, in modo parallelo e contrario a quelle liberali che puntavano
alla costituzione e alla rappresentatività dello Stato, a delegittimare gli
stati preunitari.
Charles de Montalembert
Nel 1852 scrisse Des interets catholiques au XIXeme siecle,
dove sanciva l’impossibilità di avere un governo rappresentativo a Roma, e che
l’opzione del sistema parlamentare era conveniente anche al cattolicesimo,
perché simile al governo temperato dell’istituzione ecclesiastica. Questo
accostamento scatenò le ire della rivista Civiltà
Cattolica, in quanto il governo temporale non somigliava a quello
costituzionale-rappresentativo, dove i sudditi sono chiamati a partecipare alla
legislatura, ma era più simile a una monarchia rettamente ordinata, che
rispetta il potere degli inferiori e i diritti dei sudditi per coscienza.
Nascita del Regno d’Italia (1858-1861)
Gli accordi tra Napoleone III
e Cavour a Plombiéres avevano dei richiami neoguelfi: il regno dell’Alta
Italia, la confederazione di Stati italiani con presidente onorario il Papa, la
sovranità pontificia a Roma. Dopo la proclamazione tutto si dissolse a favore
dell’unità e Roma venne dichiarata capitale del nuovo Stato nazionale, e non
più dello Stato Pontificio, sotto il motto di “libera Chiesa in libero Stato”.
Fino a quel momenti si erano
teorizzate soluzioni di compromesso, limitanti la sovranità territoriale del
Pontefice, con l’obiettivo di smantellare man mano la sua intangibilità.
Soluzioni rifiutate dal Papa in ragione del principio che non poteva accettare
la volontà popolare, anche espressa a suffragio, come motivo sufficiente a
collocare un altro sovrano su un trono già predisposto, e perché questo avrebbe
provocato, in previsione, la fine del potere temporale.
Cavour scelse una strada più
conciliante, immaginando una metamorfosi della sovranità pontificia con delle
garanzie unilaterali. Si riconnetteva così alle teorie cattolico-liberali, a
cui guardava con rinnovato interesse, convinto di poter accedere a una serie di
vasti consensi in quell’area, in modo da non rendere il cambiamento traumatico.
Le trattative iniziarono il 20 novembre del 1860, prendendo il nome dei due
emissari piemontesi, Pantaleoni e Passaglia, ma essendo più radicali dei
precedenti compromessi, non ebbero esito positivo.
Nonostante esistessero dei
movimenti a favore del potere temporale, quale potere alla stregua di quello
degli altri sovrani cattolici, spodestati o regnanti, che rispettava un
principio di legittimità, non ci furono grandi reazioni a sua difesa, nemmeno
quando nel post-unità vennero fatte delle riforme sulla nuova legislazione
ecclesiastica, la parziale laicizzazione della scuola pubblica o sui beni e
interessi ecclesiastici. Semmai, ci fu un miglioramento della qualità del
clero, un’intensa attività pastorale e una fioritura di nuove congregazioni. La
Chiesa, dunque, avrebbe tratto giovamento dalla sua nuova libertà.
Il Pontefice fece partire
scomuniche e richiami ai fautori dell’unità nazionale, ma non prese nemmeno una
decisione troppo ferma sugli obblighi derivanti dalla nuova situazione politica
(leva, voto, assunzione nei pubblici uffici). Sul clero, invece, fu molto duro,
perché nacquero dei movimenti autonomi e indipendenti che si dotavano di organi
di stampa propri (il Conciliatore, il Mediatore, l’Emancipatore, il Carroccio)
e di idee che prevedevano un adeguamento della Chiesa al nuovo ordinamento, in
grado di fornire il rispetto dei diritti del clero e dei laici, oltre che un
sistema religioso coerente con le libertà moderne. Respingevano inoltre lo
Stato confessionale come lo Stato ateo. Quello che si auspicava era una
riconciliazione tra Stato nazionale e Papa.
Con 4 encicliche il Papa
manifestò tutta la sua contrarietà, e non si costituì mai un vero e proprio
movimento nazionale, un po’ per il disinteresse delle autorità pubbliche che
preferivano non immischiarsi negli affari ecclesiastici, un po’ per la mancata
organizzazione del clero reazionario.
Da lì in poi la classe
dirigente liberale punterà a una laicizzazione degli ordinamenti e a una
riduzione dello spazio sociale fino ad allora riservato alla Chiesa, sia a
mirare a Roma come capitale del Regno. Il Papa si opporrà, oltre che con le
encicliche, con la teoria dell’infallibilità del pontefice uscita dal Concilio
Vaticano del 1869-70. Il Papa ha un’autorità infallibile in materia di fede e
costumi, e chiamava a raccolta tutta la Chiesa attorno al Papato. Si iniziò a
esigere un clero romano e intransigente. A uno stato raccolto attorno ai
principi della rivoluzione, la Chiesa opponeva una struttura raccolta attorno
all’infallibilità del vicario di Cristo. All’idea di Stato liberale si
opponeva, come alternativa, quella intransigente, un neoguelfismo uscito
rafforzato dall’unità, ma esclusivamente nel campo ecclesiastico. Le tesi di De
Maistre venivano qui realizzate.
Teorie sul costituzionalismo nella cultura
cattolico-liberale
Sul costituzionalismo abbiamo
tre autori in particolare, dalle posizioni discordanti e fluttuanti: Gioberti,
Rosmini e Balbo.
Cesare Balbo - Fautore
della costituzione moderata già dal 1821. Autore delle Speranze d’Italia nel 1848. In esse delineava la necessità di un
“governo consultivo”, individuando nel sistema assolutistico la soluzione
capace di non far interferire il movimento costituzionale con quello
dell’indipendenza nazionale. Nel caso che la costituente fosse stata nelle mani
di un sovrano – premessa essenziale per Balbo, che era ostile ad ogni assemblea
costituente – la decisione di un governo deliberativo gli appariva negativa,
perché fonte di disunioni e nociva per la causa dell’indipendenza.
L’introduzione di un governo consultivo avrebbe comunque aperto la strada a un
sistema deliberativo. Per Balbo era necessario attenuare il passaggio al
sistema costituzionale, anche semplificando il sistema consultivo e quello
della rappresentanza politica, tenendo sempre ferma la centralità istituzionale
del sovrano.
Secondo Balbo si aveva la
necessità, prima della Costituzione, di una fase in cui gli Stati italiani
fossero in grado di autodeterminarsi politicamente, godendo di sovranità. Per
lui, ciò non richiedeva un atto costituzionale preliminare, ma questo ne
costituiva il presupposto.
Antonio Rosmini
– Teorizzava l’argomento nella sua opera inedita Della naturale costituzione della società civile.
A pesare sulle loro opinioni
furono gli insuccessi dei moti del 20-21 che avevano ripristinato un sistema
ancora più conservatore del precedente. La lezione era che prima di introdurre
la questione costituzionale bisognava fare largo lavoro sull’opinione pubblica,
predisponendola a nuove riforme e a nuove forme di governo. Un cambiamento
basato su presupposti ecclesiastici, ma in una civiltà progredita, che
accogliendo la Costituzione sventava il pericolo di una rivoluzione, come
invece non era stato in Francia. Questo processo non aveva bisogno di atti o
riforme, perché era il naturale cambiamento dei tempi a determinarlo.
Al costituzionalismo erano
sottese due facce: garanzia dei diritti e forme rappresentative. La rivoluzione
poteva presentarsi qualora le forme rappresentative davano luogo a un unico
organi rappresentativo e legislativo con potere illimitato, come era accaduto
in Francia nell’89. Si dovevano privilegiare, dunque, i diritti e le riforme,
garantendo l’uguaglianza dei cittadini nei confronti della legge. Cavour lo
sapeva bene, e vedeva nella Costituzione l’esito di un cammino di preparazione
dell’opinione pubblica attraverso una politica fatta maggiormente di riforme.
Su questo tema si sviluppano
le differenze tra Balbo e Rosmini. Balbo credeva nelle conseguenze negative del
fatto che in Italia era mancata l’esperienza di una grande monarchia nazionale,
come era successo in altri paesi, quale presupposto per lo sviluppo di sistemi
costituzionali. In Rosimini il discorso sulla Costituzione aveva una forte
valenza ideologica nazionale e cattolica. La Costituzione italiana doveva
allontanarsi dal modello francese, per proiettarsi su scala europea. Una linea
che si riconduceva al Primato di
Gioberti e alla sua idea di un carattere originario degli ordinamenti
nazionali.
I cattolici liberali si
mossero nelle teorizzazioni costituzionali molto più dopo il ’48 che prima.
Questo perché, spiazzati dalla concessione dello Statuto da Ferdinando di
Borbone a Napoli, e dalla corsa agli Statuti in tutta la penisola, delineava
una naturale conseguenza di una politica di riforme, un’apertura di una nuova
epoca risorgimentale, nonché un pericolo in quanto collegata a un’ondata di
moti. Ora l’importante era mantenere questa fase nella prospettiva liberale e
cristiana.
Gioberti –
In occasione della corsa agli Statuti del ’48, Gioberti revisionò la sua opera
il Gesuita moderno, che completò
proprio nel ’48. In esso esaltava la svolta statutaria, in particolare del
Piemonte e dello Stato pontificio, e ribadiva la sua idea di monarchia civile.
Gli Statuti erano stati concessi grazie all’operazione di una sovranità
latente, nascosta nell’opinione pubblica. I titolari della sovranità
esecutrice, le monarchie, avevano concesso, in una fase riformatrice, le
costituzioni, mettendo in rapporto le sovranità virtuali con quelle effettive.
Gli Statuti, per Gioberti, erano da considerarsi su scala nazionale, perché
prodotti e concessi nello stesso modo, che rientrava nella specificità del
Risorgimento italiano, ossia nel concorso tra popolo e principi, che segna
un’epoca di incivilimento, opposta a quando il potere era appannaggio di un
solo individuo. Inoltre era un modo per dimostrare che lo statuto civile non
erodeva, ma consolidava, il potere dei principi, perché lo rendeva più stabile
e meglio garantito, anche se l’ipotesi era ardita, in particolare per lo stato
sabaudo e pontificio.
Gli Statuti italiani
prendevano le distanze da quelli francesi, ma si distanziavano anche da quelli
germanici. Il vivere libero aveva bisogno di ordini rappresentativi, mentre
nell’epoca moderna la differenza tra monarchia e repubblica stava nel carattere
ereditario o elettivo del potere esecutivo. La situazione italiana rendeva
obbligatoria la monarchia, perché l’eredità dell’esecutivo poteva darle
stabilità e vigore. Il buon vivere civile, invece, poteva darlo sia la
monarchia che la repubblica costituzionale, cha assicura libertà e uguaglianza
grazie alla rappresentazione. In sintesi, non è dalla forma del potere che
dipende la natura di uno Stato, ma dal modo in cui si fanno le leggi, basandosi
sulla libertà e sulla civiltà. I temi di Gioberti si polarizzavano, dunque,
nella garanzia dei diritti e le leggi venivano viste come limitazione del
potere dell’esecutivo, il cui presidio legittimo doveva essere regolato con il
concorso dell’organo rappresentativo.
In relazione allo Stato
Pontificio e al cambiamento di status del pontefice in potere moderatore e non
politico, liberando lo spirituale dal civile, implicava una netta separazione
tra potere spirituale e temporale, con la completa laicizzazione del secondo.
La rappresentanza, secondo
Gioberti, non veniva incarnata né dal suffragio universale, né dal suffragio a
censo ristretto, bensì doveva lasciar spazio anche a piccoli possidenti, nonché
a uomini provvisti di cultura. Qui si distanziava dalle teorie liberali secondo
cui il rapporto tra proprietà e diritto di voto si giustificasse in relazione
alla natura societaria della proprietà. Il rischio di una rappresentanza
municipalistica veniva qui temperato grazie alla classe colta. Esisteva così
una Camera alta, distinta per rappresentazione aristocratica, o di nomina
regia, che aveva potere di revisione, e la Camera dei deputati, eleggibile e
quindi rappresentativa. Il regime rappresentativo poteva risolvere i limiti di
altre metodologie, come quella francese o statunitense, che basavano tutto sul
numero, che generava poi tirannide. La democrazia era da una parte nella
designazione di un’elite colta governativa, il riconoscimento delle qualità
intellettuali e morali necessarie al governo, in cui si sostanziava la rappresentanza,
dall’altra il fine politico della Costituzione. Gioberti voleva garantire i
diritti e limitare i poteri.
Dopo il Primato del 1843 e l’Apologia
del Gesuita moderno del 1848 il ciclo giobertiano aveva preso consensi in
area cattolica e non, aveva dato nuove interpretazioni, talvolta anche ambigue,
di cui si nutrì il mito di Pio IX. Il messaggio di Gioberti tentava di
raccogliere, unificare e articolare in un discorso organico tutti i rivoli
confluiti nel crogiolo guelfo. La rielaborazione giobertiana di esso portò alla
rielaborazione e al collasso, facendo emergere le incompatibilità che erano al
suo interno.
Nell’opera pre-48 la
questione nevralgica era l’idea della nazione e dunque del rapporto tra nazione
e Stato, ma non sulla base di una preliminare identificazione del popolo
italiano come fattore legittimante. In polemica con Mazzini aveva osservato che
se l’Italia fosse veramente un popolo unito, allora sarebbe inutile dargli
un’unità che già avrebbero posseduto. Bisognava quindi definire un’idea che
prescindesse dal popolo italiano, ancora inesistente come tale, e ne
giustificasse la proiezioni in senso politico con la forma di Stato nazionale.
E lo trovava nel cattolicesimo e nel Papato. Il cattolicesimo era il primo
requisito di una nazione moderna e c’era la necessitò di scaricare le spalle
del pontefice delle responsabilità del potere temporale.
Il conflitto tra Gioberti e i
gesuiti (tra i massimi esponenti Carlo Maria Curci) derivava dal fatto che
questi ultimi erano i depositari e i garanti più agguerriti di quel blocco
dottrinale e teologico che, nella sua visione, impediva al cattolicesimo di
porsi in consonanza con le norme etico-religiose di una società nazionale.
Antonio Rosmini
– Mentre Gioberti elaborava l’Antologia,
Rosmini, nella sua Costituzione secondo
la giustizia sociale, sintetizzava ciò che avrebbe detto più tardi in Della naturale costituzione della società
civile, pubblicata nel ’48, coperta da anonimato. Come Gioberti, Rosmini
inquadra la rivoluzione degli Statuti in un’ottica nazionale, criticandone i
tratti filo-francesi, dicendo che uno Stato italiano, in forma confederale,
aveva bisogno di una sua Costituzione, e dunque quelli di quell’epoca avrebbero
avuto vita breve. La sua dottrina della Costituzione diceva che si doveva
estinguere la categoria signorile-dispotica che affossava i diritti personali e
reali presenti nello Stato, perché non dipendenti dalla sua sanzione. La teoria
di Rosmini era orientata a una nuova idea di sovranità, che non riguardava i
metodi di suffragio. Il diritto di rappresentanza doveva basarsi sulla
rappresentazione dei diritti reali e personali, creando due grandi categorie
dell’amministrazione, dunque un non un voto universale adatto ai rappresentanti
degli interessi materiali, che non sono uguali per tutti, e un voto universale
per il Tribunale politico, dunque la giustizia politica, che deve essere uguale
per tutti. Si puntava a una radicale trasformazione dell’ordinamento politico,
che andava al di là della costituzionalizzazione dello Stato.
Rosmini identificava il
principio di rappresentanza pienamente con quello della garanzia dei diritti,
in base al criterio che essi devono essere rappresentati in modo diverso a
seconda della loro specie. Sul piano politico, dunque, doveva esserci una
proiezione diretta di una struttura di diritti. Il fine della costituzione era
quello di impedire che il monopolio della forza necessario a garantire e
amministrare la giustizia tra i privati si rovesciasse contro di essi, anche
coperti dalla legge in forma dispotica. Il fine della società era nella tutela
dei diritti e la Costituzione doveva provvedere alla tutela dei diritti dei
cittadini nei confronti del potere governativo, ed esso si giustificava
garantendo tali diritti, obiettivo realizzabile anche senza costituzione. Essa
aveva comunque un senso come suprema garanzia di giustizia nei rapporti tra
potere e cittadini. Ne conseguiva una delimitazione dell’autorità e delle
competenze dello Stato, e una drastica riduzione delle sue attribuzioni di indirizzo
politico nei confronti del libero esplicarsi della vita sociale.
Alla depoliticizzazione dello
Stato corrispondeva un potenziamento religioso dal punto di vista dell’etica
morale collettiva, come cementificazione della società. Bisognava quindi pensare
ad una riforma della Chiesa che la inserisse nell’ordinamento costituzionale,
più che a una vera e propria separazione. A Rosmini non importava che la
religione cattolica venisse sancita dalle costituzioni, ma voleva delle
garanzie sull’elezione dei vescovi e del clero secondo la vecchia maniera,
riservata alla Santa sede.
Gli Statuti aprirono la
questione costituzionale. L’11 luglio del 1848 il Parlamento subalpino disse di
voler convocare un’assemblea costituente per discutere le basi della monarchia
costituzionale della dinastia Savoia. I moderati, da sempre, avevano
un’avversione nei confronti delle costituenti. Rosmini pubblica 12 articoli sul
Risorgimento di Cavour e Balbo in cui cerca di superare tale ostilità. Si
costituiva attraverso l’assemblea costituente, una nuova società che prima non
esisteva (in questo caso, quella settentrionale), perché essa era l’atto
fondativo della società. Distingueva quindi il processo di
costituzionalizzazione di un’entità politica esistente, come il Regno di Sardegna
o lo Stato pontificio, dal metodo costituende adeguato a un nuovo corpo
politico nazionale (anche se per ora era dell’Alta Italia). L’atto costituente
è la realizzazione di un patto associativo tra individui conferenti ad
un’associazione civile la parte dei diritti necessari per la società, e non una
proiezione di sovranità nazionale o popolare. La società nazionale è una nuova
società civile.
Cesare Balbo
– Assume idee simili a quelle di Rosmini nell’incompiuta Della monarchia rappresentativa in Italia. Secondo Balbo la teoria
costituzionale non dipendeva dal periodo storico in cui si viveva – come
Rosmini e Gioberti – ed ha un’ostilità nei confronti del primato italiano,
ovvero di un ordinamento politico che non attinga a quelli europei. La concezione
balbiana era di proiezione verso l’Europa, e accrescimento attraverso uno
scambio tra le nazioni, perché tutte dell’ambiente costituzionale di matrice
cristiana.
Balbo manteneva disgiunta la
questione costituzionale da quella nazionale, e gli era estraneo il concetto di
Gioberti che la nazione potesse rappresentare un nuovo simbolo di sovranità,
come era contrario all’idea di Rosmini che la società nazionale fosse una nuova
società civile. Erano due discorsi separati e la nazione poteva essere definita,
in senso stretto, come un insieme di individui compresi in uno Stato, mentre in
senso largo, un complesso di popolazioni e di Stati derivanti dalla medesima
cultura e lingua. La nazione, quindi, non è il principio di origine della
sovranità, perché essa è appannaggio del potere reggente, perché altrimenti
creerebbe instabilità. La sovranità è per la sfera del potere, non per la
nazione. La nazione è la causa finale che giustifica la sovranità. Le due
storie si intersecano ma non si sovrappongono.
Gli Stati moderni, inoltre,
sembrano fondarsi su monarchie rappresentative, ma questo non significa che
anche l’Italia dovesse fare lo stesso. Balbo vedeva un sistema più adatto in
più monarchie rappresentative (7-8) purché nazionali, e non estere.
Il principale obiettivo di
Balbo era di confermare la monarchia rappresentativa a differenza di Gioberti
che la vedeva come uno status di passaggio da distruggere. Solo nello spazio
delle monarchie rappresentanza e democrazia si possono incontrare. E nella
democrazia viene compresa una parte sociale che pur non identificandosi con il
potere esige di avere accesso ai diritti politici e di concorrere al potere del
sovrano. La democrazia di Balbo, quindi, è rappresentata, ma non mai
rappresentativa. A differenza di Gioberti, Balbo non identificava un sistema
costituzionale in cui il monarca regnava ma non governava, né un’astratta
previsione di divisione dei tre poteri. Era necessaria invece una bilanciamento
e un controllo dei tre poteri, all’interno di una sovranità articolata ma non
divisa. Il principe e le due Camere sono entrambi partecipi al potere
legislativo e a quello esecutivo, mentre il giudiziario, seppur indipendente,
non è separato formalmente dai primi due. La monarchia rappresentativa secondo
Balbo è l’unica in grado di assicurare la democrazia che non si traduca in
tirannide sotto forma di sovranità popolare. In particolare era ispirato dal
Parlamento inglese, ed era assolutamente contrario alle assemblee costituenti,
considerate rivoluzionarie. Nel Parlamento, infatti, concorrono le tre forze
dello Stato, ossia il monarca e le due Camere.
Balbo tenta di contemperare
il potere dato del principe con quello prodotto dalla rappresentanza. Quindi
non si pone il problema dell’elettorato, potenzialmente universale o con censo
bassissimo, perché bisognava creare nuovi criteri di eleggibilità, affidando la
politica a chi si è distinto per la propria notabilità (e dall’opinione). Il
modello rappresentativo si traduce nella selezione tra coloro che hanno già un
certo grado di rappresentatività. E la rappresentanza elettiva è lo strumento
più adatto per selezionare una classe politica. Il metodo elettorale è solo per
la Camera dei deputati, mentre la Camera alta è di nomina regia preferibile.
Dopo il ’48 le sue idee si differenziano
notevolmente da quelle di Gioberti e Rosmini, che vedevano gli Statuti come una
fase di passaggio, imitando le costituzioni straniere, inadeguate comunque allo
stato nazionale. Balbo voleva legittimare lo Statuto Albertino e ne prospettava
l’applicazione sul profilo della rappresentanza, nella prassi parlamentare e
nell’articolazione dei poteri. Balbo aspirava ad una continuità dello Statuto
nel Regno di Sardegna, che verrà invece forzato da Cavour, che predisporrà le
condizioni effettive del primato nazionale dello Stato sabaudo. Infatti, solo
attraverso una forzatura lo Statuto Albertino sarebbe potuto divenire il
contenitore dello Stato nazionale.
Il crogiolo guelfo
La rinascita delle ideologie
guelfe all’inizio dell’800 fu dovuta a:
1)
ondata
antinapoleonica che aveva rimesso in primo piano il tema di Papato contro
Impero, stavolta tradotto in papato contro popolo;
2)
mito di Pio VII,
papa disarmato ma vittorioso oppositore nella tirannide della rivoluzione
francese;
3)
ultramontanesimo
come risposta alla crisi delle Chiese nazionali, esaltatori dell’infallibilità
del pontefice;
4)
religione come
cemento della società, fonte primaria di morale ed etica pubblica, in senso
anti-illuministico;
5)
religione come
garanzia di limite dell’esercizio del potere;
6)
religione che
dava diritto alla cittadinanza e all’identità nazionale.
Il crogiolo guelfo si trovava
in contrapposizione con le varie correnti in Italia che avevano una diversa
ideologia sulla questione. De Maistre era dominato dalla fondazione sacrale
della sovranità, creatrice strutturale della nazione. Manzoni era invece
pervaso dal conflitto degli imperativi dati dalla coscienza cristiana e dalla
sfera del potere, su cui si innestava un’idea di nazione separata e
indipendente dalle forme politiche.
L’altra differenza era nei
limiti dell’apporto della morale cattolica per la formazione di una morale
civile a misura di nazione. Manzoni riprende il tema nel suo Osservazioni sulla morale cattolica,
dove proponeva la piena identità tra la morale evangelica con quella impartita
dalla Chiesa. Il problema venne approfondito da Gioberti che chiamò in causa la
morale impartita dalla Chiesa e la conformazione del suo apparato dogmatico,
teologico e istituzionale. Inoltre, visto che la morale cattolica era il fondamento
della società, era necessario chiedersi quanto fosse adatta nella società
moderna e nel progresso politico.
Cesare Balbo, sviluppando
nelle Meditazioni storiche e poi le Speranze d’Italia, il canone di una
civiltà cristiana progressiva che aveva generato la società moderna. Secondo
lui i progressi della società erano dovuti alla maggiore influenza della morale
cattolica, un progresso quindi della religione.
Diverso il pensiero delle
correnti cattoliche intransigenti, che individuavano nella civiltà moderna un
rovesciamento e una frattura di valori della Chiesa, due universi etici
contrapposti. È vero che si professava anche l’utilità della religione
nell’etica sociale, ma esisteva una differenza tra chi leggeva la dottrina
fondata sulla verità rivelata, e chi la leggeva con lo sguardo rivolto al
progresso, che era da condannare.
L’emergente conflitto tra i
due volti del pontefice, monarca temporale e capo ecclesiastico risultava
aggravato dal fatto che la seconda prerogativa stava subendo una metamorfosi.
Il primato pontificio stava diventando un reale potere di governo sulla Chiesa
universale, e si universalizzava nel momento in cui veniva considerato come
centro ispiratore della nazionalità. Nella frammentata Italia lo Stato
pontificio era rappresentativo, anche perché aveva un’elite dirigente
interregionale, l’unica in grado di incidere su tutto il territorio nazionale,
dotata di un’autorità che poteva sovrastare quella dei sovrani. Inoltre
controllava e coordinava i movimenti religiosi italiani, cosa che non potevano
fare gli Stati regionali dal post-restaurazione.
La democrazia di Gioberti
Il tema della democrazia
occupa un posto di primo piano nell’opera giobertiana, ma si differenzia nel
tempo in base alla mutevolezza del suo pensiero. In più il variegato sistema
delle fonti usate e il mimetismo necessario all’epoca forniscono un substrato
lessicale molteplice. Il discorso giobertiano sulla democrazia delinea le
condizioni teoriche di una democrazia virtuosa e legittima, opposta a quella
assoluta e dispotica, identificata con la democrazia diretta classica o con le
assemblee rivoluzionarie. Per raggiungere questo obiettivo bisognava rifondare
il concetto di sovranità, sottraendola alla volontà soggettiva – e quindi
arbitraria – individuale o collettiva, ricollegandola invece a valori oggettivi
dati, e non creati dall’uomo. Se Gioberti aveva condiviso con la cultura
controrivoluzionaria della Restaurazione l’esigenza di ricorrere a sistemi di
valori non dipendenti dalla volontà umana, e tali da costruire i riferimenti
ultimi dell’ordine sociale e politico in senso opposto alla curvatura
soggettivistica della modernità, per altro verso aveva preso le distanze da
quella cultura fin dalle sue prime opere a stampa, come Teorica del soprannaturale e l’Introduzione
allo studio della filosofia. Il solco che l’aveva separato dai teorici
della Restaurazione dipendeva dal fatto di aver rappresentato i principi e i
valori impressi nell’uomo dall’atto creativo di Dio mediante il lume della
ragione e il dono del linguaggio, riaffermati dalla Rivelazione cristiana, come
un sistema aperto alla libertà creatrice dell’uomo. E la storia è il momento in
cui si realizza lo sviluppo, affidato alla libertà dell’uomo, benché soggetto
ad errore, assimilato dalla Chiesa, che si traduce in un cammino di civiltà. La
civiltà, dunque, dipende dal modo in cui gli uomini prendono coscienza delle
proprie facoltà, in rapporto ai principi razionali e morali delle loro
coscienze, coerenti con quelli formalizzati dalla Chiesa. La religione è un
fattore essenziale di incivilimento, deposito di valori etici non dipendenti
dall’uomo, ma sui quali l’uomo tesse la sua storia.
Ciò che distanziava Gioberti
dalla cultura liberale, nonostante fosse su quella strada, era il concetto che
il regno di Dio annunciato nel Vangelo rappresentasse un nuovo ordine di cose
che cominciava con Cristo e si va svolgendo e ampliando successivamente sulla
terra. Il regno promesso era un regno di salvezza politica e ultraterrena.
L’estensione dei precetti del cristianesimo diventava la forma distintiva di
una cristianità nuova, in un nuovo rapporto tra cristianità civile e Chiesa. La
sua idea di democrazia si basava, soprattutto, sulla salvaguardia della libertà
dell’individuo.
La democrazia aveva un
significato teologico, era un punto di orientamento e non una forma di governo
o di Stato che facesse risiedere nel popolo la sua legittimità. La democrazia
non il “governo del popolo” ma ha radici più spirituali.
La democrazia di Gioberti si
saldava con il sistema rappresentativo. La sua dottrina costituzionale si
traduceva con l’espressione “stato civile” e aveva lo scopo di conciliare la
linea garantista delle libertà individuali con il movimento verso la democrazia
come sistema politico, e come dar voce politica alla democrazia intesa come
popolo, cioè come riconoscergli rilevanza politica.
Gioberti aveva due accezioni
di popolo:
1)
di natura
politica: non si ha popolo in assenza di un fattore politico che lo costituisca
come tale. È una collettività politicamente strutturata, risultato di un
processo politico che non può partire dal popolo, perché non esiste.
2)
di natura
sociologica: il popolo acquista significato di ceto sociale, differenziandosi
dalla plebe o dall’aristocrazia.
Ostile – ma la superò nel Rinnovamento – al suffragio universale,
ma anche ad una torsione elitaria della rappresentanza, che presupponeva
capacità che non potevano essere conferite dal basso.
Il modello giobertiano si
traduceva nel governo di una classe colta, in un sistema di aristocrazia elettiva,
nella quale l’atto elettorale era finalizzato al riconoscimento pubblico delle
qualità atte a svolgere funzioni legislative e di governo.
Bisognava garantire, inoltre,
l’uguaglianza, la dignità e l’interesse comune. Il pensiero giobertiano si misurava
nei modi e nei limiti in cui la democrazia, intesa come popolo, potesse avere
un ruolo politico.
Il Rinnovamento civile d’Italia, pubblicato nel 1851, affronta la
questione della democrazia con quello della nazionalità e del primato del
pensiero e dell’ingegno, che costituiscono per Gioberti i tre assi della nuova
età che si sta schiudendo in Europa, da cui dipenderà anche il destino
dell’Italia.
Pur mantenendo le sue
obiezioni concernenti l’idea che la legge possa essere il prodotto di una
volontà generale che si traduce nella maggioranza, indipendentemente dalla
conformità della ragione, il principio di maggioranza può essere comunque un
progresso, male minore rispetto all’imposizione della forza, con cui l’aveva
inizialmente identificato perché lascia spazio alla creazione di legge
ingiuste.
Nel Rinnovamento cade la formula del governo misto di monarchia,
aristocrazia e democrazia e Gioberti si attesta con l’idea di democrazia come
tutto, e non come parte, in un’accezione sociologica di popolo come corpo
sociale che può unirsi, e non c’è un modo per definire dove inizi o finisca una
classe.
La democrazia era predominio
non del governo ma del popolo. Gioberti sovrapponeva al concetto di popolo come
corpo sociale quello ideologico di sintesi tra plebe e ingegno. Quest’ultimo
rappresentava la moltitudine, e da qui nasce la sua autonomia e sovranità
intrinseca, essendo delegato al popolo, perché di Dio e della natura, e non per
elezione arbitraria degli uomini, ma per vocazione naturale. Nella sovranità
dell’ingegno finiva per risolversi la questione della sovranità popolare.
Gioberti poi approdava al
principio di suffragio universale come criterio per identificare la propria
classe politica, grazie all’ingegno che metteva ordine negli istinti della moltitudine,
e da qui l’origine naturale della rappresentanza. Il voto universale poteva
essere applicato a tutti gli uffici, quello che realmente importava era la
libera elezione dei magistrati legislativi ed esecutivi. Nella dottrina
giobertiana si delineava un sistema simile a quello americano, in precedenza
criticato. Avversione verso l’assemblearismo parlamentare lo induceva a dire
che il rinnovamento italiano doveva fondarsi nei magistrati esecutivi più che
nelle assemblee pubbliche perché da essi poteva nascere un buon ordinamento.
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